Reportage. Agli slogan degli studenti nordamericani si affianca la posizione dei militanti degli anni Sessanta
Reportage. Agli slogan degli studenti nordamericani si affianca la posizione dei militanti degli anni Sessanta
Fin dalla notte newyorkese che ha sancito la vittoria di Trump, Black Lives Matter è lo slogan più ripetuto nel corso delle proteste seguite all’elezione. Gli fa da contrapposizione l’urlo dei supporter del neo presidente Blue lives Matter. Blue come il colore delle divise della polizia.
Black Lives Matter nasce nel 2012 a seguito dell’uccisione da parte della polizia del diciassettenne afroamericano Trayvon Martin e oggi è una parte rilevante del movimento studentesco statunitense, insieme a organizzazioni come Stop Mass Incarceration, contro la spregiudicatezza delle incarcerazioni, Fight for $15, che lotta per il raggiungimento di un accordo sul salario minimo garantito, Dreamers, che rivendica i diritti dei cittadini senza documenti e IEC (Incarceration to Education Coalition), per la libertà di accesso all’istruzione per gli studenti con precedenti penali, oltre a vari altri coordinamenti attivi su tematiche come il cambiamento climatico e il costo delle rette universitarie, che qui sono tra le più alte del mondo.
A giudicare dalle aree d’interesse del movimento studentesco sembrerebbe che i giovani prevedessero la vittoria del candidato repubblicano Donald J. Trump e volessero in qualche modo giocare d’anticipo. Ma non è così.
Le contestazioni degli studenti non fanno altro che richiamare l’attenzione della politica e della società civile su questioni rimaste in gran parte inascoltate anche negli otto anni della presidenza Obama, durante i quali, al di là del valore simbolico dell’elezione del “presidente nero”, sono state disattese quasi tutte le aspettative sostanziali.
Un aiuto per cercare d’interpretare meglio anche la schiacciante vittoria di Trump e le presunte capacità preveggenti dei giovani, ci viene dato dai leader del movimento degli anni Sessanta, che rispetto ai loro colleghi odierni possono far affidamento su una memoria storica più ampia.
Il bilancio del mandato democratico di Obama e più in generale della politica statunitense appare infatti decisamente negativo con le dichiarazioni di Carl Dix, portavoce nazionale del Partito Comunista Rivoluzionario, di Jamal Joseph ex Pantera Nera e membro del Black Liberation Army e Cornel West, filosofo, docente emerito presso Princeton e attivista del movimento Democratic Socialist of America.
È proprio quest’ultimo che durante una recente intervista definiva l’eventuale vittoria di Trump come una catastrofe fascista anteposta al disastro neoliberale di una vittoria della Clinton. Nelle sue teatrali arringhe pubbliche West punta il dito in modo inequivocabile contro un sistema che opprime brutalmente le minoranze, specie se afroamericane, a favore di un ristretto gruppo di privilegiati che detengono potere e risorse finanziarie. A una Hillary Clinton che dichiarava di essersi sempre battuta per i diritti dei bambini, West chiedeva a quali bambini si riferisse, tenuto conto che la riforma del Welfare del 1996 firmata da suo marito Bill aboliva gli aiuti federali in vigore dal 1936 per i figli di famiglie con basso reddito. “Nemmeno Ronald Reagan l’avrebbe firmata”.
Ancora più nette le dichiarazioni di Carl Dix, il rivoluzionario, come gli piace farsi chiamare.
Ci vediamo qualche giorno dopo una protesta contro la brutalità della polizia organizzata dal suo partito davanti al carcere di Rikers, in Queens. Il penitenziario è tristemente famoso per gli episodi di violenza nei confronti dei prigionieri, ma anche verso i dipendenti e le guardie della struttura correttiva. Dix mi racconta che il giorno dell’inaugurazione del mandato presidenziale stava incontrando alcuni studenti entusiasti per l’elezione del presidente afroamericano: “La nostra generazione ha già fatto la rivoluzione grazie all’elezione di un presidente di colore.” La risposta di Dix fu lapidaria: “Questo è il mio biglietto da visita. Chiamatemi tra sei mesi se qualcosa cambierà. Se sei mesi vi sembrano pochi, chiamatemi tra un anno.” Nessuno lo ha più chiamato. “Perché è cosi che il potere è impostato”, sostiene Dix, “Repubblicani e Democratici sono il prodotto dello stesso sistema imperiale e capitalista che non permette a nessuno che voglia davvero cambiarlo di raggiungere le posizioni di controllo.”
Alberto Vourvoulias è professore di giornalismo presso l’Accademia Americana di Roma e in precedenza è stato direttore della sezione latino americana di Time Magazine. Lo incontro nella sua casa a Brooklyn per parlare del movimento Dreamers e per farmi spiegare quali sono stati i risultati ottenuti dall’amministrazione Obama sulla delicata questione dei cittadini “senza documenti”. Dopo una lunga esposizione Vourvoulias fa notare che sebbene da una parte l’istituzione dei permessi di lavoro Daca abbia concesso ai figli degli immigrati irregolari di poter lavorare temporaneamente per un periodo di due anni, dall’altro, l’amministrazione del presidente afroamericano s’è fatta carico del più alto numero di deportazioni della storia del Paese, dopo che sempre un’altra amministrazione democratica, quella Clinton, aveva iniziato a costruire i primi muri tra Messico e USA.
Evidenzia delle criticità anche Jamal Joseph, oggi professore presso la Columbia University, ma che fin dalla sua militanza nelle Black Panther maturò la convinzione che numerosi problemi della società moderna potessero essere ricondotti allo sfruttamento liberal capitalista sviluppatosi grazie all’istituzione della schiavitù “sulla quale questo paese s’è letteralmente costruito”, come spiega il professor della Cornel University Edward E. Baptist nel suo libro: The Half Has Never Been Told: Slavery and the Making of American Capitalism.
Durante la conversazione nel suo studio che affaccia sul viale principale del campus della Columbia University, Jamal Joseph si spinge oltre e paragona l’attuale struttura privata carceraria e il relativo sfruttamento della forza lavoro dei prigionieri a una moderna forma di schiavitù. Ampiamente sottopagati “i detenuti lavorano per alcuni dei marchi più famosi, come Victoria Secrets, Wholefoods, oltre a produrre articoli da campeggio e microprocessori.” Questa opinione è rafforzata dalle parole di Greg Tate, musicista, scrittore, professore di studi americani presso la Brown University, membro della Black Rock Coalition e con un passato come editor nel Village Voice: “ll paradosso di tutto ciò è che a causa dei precedenti penali, una volta usciti dal carcere non riescono a trovare un posto di lavoro nelle stesse aziende per le quali producevano quando erano dietro le sbarre”
Proprio sul parallelismo tra schiavitù e sistema carcerario – privato – statunitense, negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi sociologici, come ricordava qualche mese fa a Radio24 il professor Luconi, docente di storia americana presso l’Università di Firenze. Con un giro d’affari di miliardi di dollari e quasi due milioni e mezzo di persone dietro le sbarre, delle quali diverse centinaia di migliaia lavorano per colossi come Ibm, Boeing, Motorola, Microsoft, Dell, HP, Intel, AT&T etc., lo sviluppo di questo apparato “ha visto i democratici ugualmente responsabili”, dichiara Pina Piccolo, poetessa italoamericana e attivista, stabilitasi in Italia dopo aver vissuto trent’anni negli USA.
Anche i normali lavoratori vivono una condizione poco invidiabile, come mi fa notare un ex direttore della TV Discovery Channel. Ci vediamo una domenica a pranzo nel cuore del Lower East Side. “Il milione e mezzo dei dipendenti statunitensi di Wall Mart, – la più grande multinazionale al mondo della grande distribuzione – riesce a mangiare grazie ai buoni pasto federali. Le tasse degli americani sovvenzionano una delle compagnie più redditizie del pianeta.” Scopro che cita una ricerca del 2014 effettuata dall’organizzazione Americans for Tax Fairness elaborata grazie agli studi redatti nel 2013 dal Democratic Staff of the U.S. Committee on Education and the Workforce, i cui risultati furono pubblicati nel 2014 dalla rivista Forbes e che attestavano in $6.2 miliardi il costo dei dipendenti di Wall Mart per i contribuenti Americani, tra buoni pasto federali, assistenza sanitaria e programmi per la casa. Ricerca che che Wall Mart contestò subito dopo.
Qualche mese prima Forbes aveva pubblicato un’altro studio, redatto questa volta da ricercatori dell’università di Berkeley, che evidenziava come gli oltre 3 milioni e mezzo di dipendenti dell’industria dei fast food costasse ai contribuenti 7 miliardi di $ di cui all’incirca la metà per i programmi d’assistenza sanitaria per i bambini dei dipendenti di aziende come McDonalds, Pizza Hut, Taco Bell, KFC, che ricevono mediamente un salario di $8,69 l’ora, ben lontano dai $15 richiesti come salario minimo.
In un’intervista dell’Aprile scorso, Ed Rensi presidente di McDonald USA per 13 anni, fa notare che l’introduzione del salario minimo di 15$ porterebbe a un azzeramento dei profitti per il 90% dei punti vendita in franchising e che in Europa, dove le regole sui salari sono più rigide, l’azienda ha iniziato a sperimentare con successo l’introduzione di chioschi automatici che prendono le ordinazioni, tagliando di fatto migliaia di posti di lavoro.
Insomma, invece di ripensare le politiche commerciali si preferisce perseguire la strada della riduzione del costo del lavoro.
Provo a cercare una voce di positività rivolgendomi a Romie Williams, studentessa all’NYU grazie a una borsa di studio elargita dalla fondazione Gates con la quale riesce a pagare i $ 30 mila dollari annuali di retta per i suoi corsi di studio. Il programma Gates Millennium Scholars favorisce l’accesso a un’istruzione d’eccellenza per “gli studenti di colore.” Romie studia “Social Justice” con un focus in “Urban Education Reform” e presiede numerosi gruppi extra scolastici come la Black Student Union, Feminists of Color Collective, LGBTQ Student Center. Adesso è a Londra per una residenza all’estero all’interno del suo percorso di studi. Le chiedo che cosa pensa della recente vittoria di Trump, se ritiene che con Sanders le cose sarebbero andate diversamente, oppure se, come dicono Cornel West e Carl Dix, tutto dovrebbe essere cambiato perché così i politici sono unicamente il prodotto di un capitalismo corrotto.
Secondo Romie “i politici non sono che l’espressione degli elettori. L’apparato di controllo deve essere sfidato e cambiato con una rivoluzione, anche se molti sono spaventati all’idea del cambiamento.“
Le chiedo allora a che tipo di rivoluzione si riferisca, tenuto conto che proprio chi dovrebbe essere sfidato ha permeato sia l’apparato educativo che i media, lasciando alle persone ben poca autonomia, tenuto conto che è difficile sfidare qualcuno quando è lui che procura le risorse economiche per gli studi prestigiosi che poi permettono di trovare un buon lavoro con il quale pagare i debiti contratti all’università. Mi risponde che per il momento non ha una soluzione a questa domanda.
Con queste premesse era impensabile aspettarsi un supporto incondizionato al partito democratico volto solo a ostacolare la vittoria di Trump, che anzi, dopo aver ricevuto aspre critiche anche dai suoi è stata grottescamente percepita come “l’unica alternativa al sistema per cercare di bilanciare le risorse di un paese iniquo e contraddittorio” come mi ha detto John Vaughan, uno dei numerosi supporters di Trump intervistati dalle televisioni di mezzo mondo fuori dall’hotel Hilton la notte delle elezioni.
Se Vaughan abbia ragione o meno è difficile da dire.
Sicuramente il movimento studentesco dovrà cambiare solo il destinatario delle proprie proteste, che non saranno più rivolte al “potere amico” rappresentato dal presidente afroamericano, bensì verso il nuovo corso del tycoon newyorkese. Gli argomenti di contestazione, invece, rimarranno sostanzialmente gli stessi e soprattutto è quasi certo che se non saranno attuate delle specifiche politiche sociali, la condizione di povertà di 45 milioni di cittadini americani, la precarietà dei quasi 16 milioni di “undocumented people” e lo sfruttamento della popolazione carceraria a favore delle corporation private, continueranno a rimanere questioni irrisolte.
Pingback: Black Lives Matter: i colori della protesta – Micciacorta | NUOVA RESISTENZA antifa'