Quella notte in cui a New York «l’apostolo» delle Black Panthers parlò di Lumumba con il «líder maximo». Era il 1960, e nessun albergo a New York voleva ospitare il leader rivoluzionario
Quando i rivoluzionari cubani sconfissero l’esercito di Fulgencio Batista, nel gennaio del 1959, Harlem era l’indiscusso centro politico e culturale nero degli Stati uniti.
Dall’inizio del Novecento il quartiere era stato attraversato da movimenti afro-americani radicali che avevano attirato politici e attivisti da tutto il Terzo mondo, leader che in diversi casi avrebbero poi giocato un ruolo chiave nel processo di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta.
Con il «Sud globale» in sommossa, Harlem era il centro più recettivo per i messaggi che arrivavano dai movimenti indipendentisti africani e asiatici.
«La colonizzazione e la discriminazione razziale negli Stati uniti hanno radici comuni», diceva Malcolm X, che proprio da Harlem stava tessendo rapporti con diversi leader africani. Cuba rappresentava però una novità: con la vittoria dei rivoluzionari un paese del Terzo mondo metteva in discussione l’egemonia stessa degli Stati uniti nel continente americano. E poi Cuba era «mista» (la mescolanza di etnie era più frequente che negli Stati uniti), gli afro-cubani erano i maggiori sostenitori della rivoluzione e tra gli uomini più vicini a Castro c’era Juán Almeida Bosque, un muratore analfabeta nero, diventato uno dei comandanti più abili dell’esercito del líder máximo.
DOPO LA VITTORIA, Castro cercò interlocutori negli Stati uniti e fece anche un viaggio «esplorativo» nella costa Est in aprile, ottenendo però scarsi risultati, anche perché l’amministrazione Eisenhower pensava che il leader cubano fosse un comunista e lesse la rivoluzione con gli stessi strumenti che gli avevano fatto scambiare tutta una serie di rivoluzioni nazionaliste per comuniste, nel Terzo mondo.
Il clima di incertezza e diffidenza reciproca tra i due paesi andò così rapidamente peggiorando nei mesi successivi e quando nel settembre del 1960 si tenne a New York l’Assemblea generale delle Nazioni unite i rapporti tra Stati uniti e Cuba erano fortemente compromessi. Era un’Assemblea importante, quella del 1960, la decolonizzazione era tra i temi in agenda e il discorso del nuovo leader cubano tra i più attesi.
L’ARRIVO della delegazione cubana a New York fu però rocambolesco. Un mix di pressioni politiche, insieme al timore di ripercussioni economiche, fecero sì che nessun albergatore fosse disposto a ospitare quello che ormai in molti negli States consideravano il leader di un paese comunista. E quando, dopo l’intervento del Segretario generale delle Nazioni unite, l’albergo riservato ai cubani si disse disposto a offrire loro alloggio dietro il pagamento di una salata cauzione, Castro andò su tutte le furie e pensò di campeggiare a Central Park. «Siamo gente di montagna, siamo abituati a dormire all’aria aperta», disse. Seguirono ore convulse. Fidel era realmente intenzionato a organizzare un campeggio nel cuore di Manhattan, una mossa che gli avrebbe permesso di capitalizzare a suo vantaggio una situazione delicata e di mettere in imbarazzo gli Stati uniti agli occhi del mondo.
UNA PROPOSTA più allettante arrivò però da Malcolm X: i cubani avrebbero potuto alloggiare all’hotel Theresa, uno storico albergo nel cuore di Harlem. Louis Armstrong, Joe Louis, Jimi Hendrix, Ray Charles, Duke Ellington erano alcune delle star afro-americane clienti abituali del Theresa, ma mai un leader bianco di un paese straniero vi aveva soggiornato prima. Castro accettò senza pensarci due volte, anche perché comprese che mettere in luce le differenze tra la giovane Cuba multirazziale e gli Stati uniti segregati, sfidando il vicino a casa sua, sarebbe stata una scelta vincente.
L’INCONTRO con Malcolm X avvenne di notte, all’arrivo della delegazione, nelle stanze di Fidel. I due parlarono della rivoluzione, di come a Cuba i rapporti razziali fossero migliorati, del comune sostegno ai movimenti indipendentisti del Terzo mondo e del leader congolese Patrice Lumumba, il cui arresto aveva scosso fortemente la comunità nera di Harlem. Non fu un incontro facile. Le barriere linguistiche, ricordano i pochissimi testimoni, giocarono un ruolo sostanziale, ma a livello simbolico fu uno degli eventi più significativi della storia di Harlem.
Dopo l’incontro con Fidel, Malcolm X andò in molti paesi africani che avevano intrapreso il processo di decolonizzazione. Per lui il movimento di liberazione della «gente di discendenza africana» era globale, nel Terzo Mondo come negli States
MIGLIAIA DI PERSONE scesero nelle strade giorno e notte per tutto il periodo della permanenza di Fidel e diversi leader mondiali, tra cui Nikita Krusciov, sfilarono nel ghetto nero di New York per incontrare il líder máximo. In poco tempo Harlem si scoprì castrista – ancora di più quando al Theresa arrivò anche il comandante Almeida Bosque – e divenne per alcuni giorni «il centro del mondo», dissero in molti.
LA DISCRIMINAZIONE razziale veniva così globalizzata e messa sotto i riflettori della guerra fredda da un evento che contribuì a screditare ulteriormente l’immagine di Washington e a comprometterne le relazioni con i paesi africani e asiatici. Fu in quello spazio spinoso che si inserirono i rapporti tra l’Avana e Harlem, nati proprio da quell’incontro tra Fidel e Malcolm, e preludio di numerose interazioni tra l’ala più radicale dei movimenti di liberazione afro-americana e la Cuba rivoluzionaria.
La rivoluzione era arrivata davvero in America e gli Stati uniti avrebbero presto dovuto far fronte a una «guerra fredda razziale» a cui Castro, da Harlem, aveva dato nuova linfa.
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