Riforme. Non importa se un teorema è vero o falso, importa solo se è comodo o scomodo, utile o dannoso. Marx parlava di «economia volgare», oggi tocca alla storiografia
«Distorsioni cognitive», così Michele Prospero (il manifesto, 24 novembre) ha chiamato gli effetti dell’ «impressionante» schieramento mediatico messo in campo, in particolare nel settore televisivo, per orientare verso il si l’esito del referendum. Non esiste, però, ambito sottratto alla tentazione delle «distorsioni cognitive» quando si ritiene tale risultato necessario alla conservazione di un assetto politico essenziale allo «stato di cose presente». Così anche settori appartenenti alla «scienza come professione», come la storiografia, si prestano a svolgimenti in termini di narrazione «volgare».
«Economia volgare» è espressione marxiana, utilizzata in particolare ne Il Capitale. Usando tale espressione Marx non si riferisce alla grande tradizione dell’economia classica. Nonostante la concezione marxiana del sapere economico diverga radicalmente da quella di Smith e Ricardo, il pensatore di Treviri ritiene i loro scritti vera opera di scienza, apportatori di conoscenza reale. Economisti «volgari», invece, erano coloro che pensavano «non si trattava più di vedere se quel teorema vero o no, ma se utile o dannoso, comodo o scomodo».
In una disciplina come quella storica che, soprattutto nella sfera contemporaneistica, ha uno statuto scientifico piuttosto debole, e che si presta facilmente ad uso politico immediato, il «meccanismo» descritto da Marx ha trovato un largo e facile uso. La narrazione ideologica basata su storiografia «volgare» emerge con tutta naturalezza, quando, come nell’occasione dell’attuale scontro referendario, le ragioni dell’opportunità politica si fanno stringenti. Emblematico, ad esempio, il caso dell’editoriale di Galli della Loggia nel Corriere della Sera del 5 novembre. Della Loggia sostiene che uno dei punti chiave della «doppia battaglia» sul referendum sia la «battaglia forse ultima e decisiva (..) di una guerra civile iniziata tanto tempo fa all’interno della Sinistra italiana tra riformisti e rivoluzionari». Tra una «sinistra massimalista (…) antiriformista a valenza estremistica» e la sinistra «riformista». La «cultura» del suddetto coacervo «massimalista» sarebbe nata «nelle viscere del ribellismo italiano» e poi, nel secondo dopoguerra sarebbe «cresciuta e alimentata nell’ambito della Sinistra comunista».
In storiografia, ed anche nella sua utilizzazione giornalistica, non si giudicano modelli astratti, bensì la loro corrispondenza con lo stato delle fonti e della letteratura consolidata.
Galli della Loggia usa termini (cioè concetti) come «massimalismo», «rivoluzionarismo», «estremismo», «ribellismo», pressoché come sinonimi, all’interno di un lungo percorso che ripete sempre se stesso. Medesima cosa per «riformismo». Fonti e letteratura consolidata ci parlano di un’altra realtà. Al di là della scelta del modello, il presupposto irrinunciabile per qualsiasi analisi storica consiste nella capacità di «distinzione», cioè nella rigorosa contestualizzazione sia dei concetti che dei fatti. Non c’è alcuna traccia che la base argomentativa dell’editoriale in questione abbia come presupposto un’operazione del genere. I concetti/categorie non sono mai storicamente determinati, si presentano invece come categorie eterne, quasi novelle categorie dello spirito, divisive tra bene e il male. In sostanza il giornalista (un tempo specialista della disciplina storica) dice ai suoi lettori: volete voi soggiacere all’eterno massimalismo, estremista, velleitario, inconcludente, ecc., oppure volete scegliere la ragionevolezza del buon senso? Esattamente la modalità, del tutto propagandistica, con cui è formulato il quesito referendario.
Di quali segnali sono indicatori fenomeni di tal genere?
Ancora Prospero in un bell’articolo dello stesso 5 novembre, sul manifesto, parla dei «moderni regimi monoclasse» come elemento causale della «pochezza dei ceti politici reclutati in occidente», della loro estraneità alla cultura del «leggere le istorie».
Ebbene la «monoclasse» dei regimi politici si integra perfettamente (il rapporto è biunivoco) con una narrazione che espunge dalla vicenda della lunga contemporaneità le radici profonde, economiche, sociali, culturali, politiche della storia delle classi subalterne.
Il contesto in cui opera con facilità la storiografia «volgare» è quello reso particolarmente fluido dal ritorno in forze del «plebeismo» non soltanto nei ceti subalterni, ma anche nei ceti, in senso lato «borghesi». Sulla funzione della sinistra rappresentata dal PCI nel secondo dopoguerra le interpretazioni storiografiche sono del tutto aperte e legittime. È difficile però non concordare sul fatto che uno sforzo particolare del partito di Togliatti fosse indirizzato proprio ad una imponente operazione pedagogica: quella di trasformare la plebe in popolo. L’eliminazione del «ribellismo» ne è stato un aspetto consustanziale. Sostenere che la «cultura del ribellismo» sia «cresciuta e alimentata» nel Pci è «retorica senza prova». Prova, invece, di storiografia «volgare».
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