L’attore prodigioso. Tacciano gli ipocriti. Moni Ovadia ricorda Dario Fo
E adesso ci toccherà fare a meno della sua presenza viva, è duro pensarlo. Sembrava eterno, preso come era a progettare sempre nuove messe in scena con se stesso, con i luoghi dell’arte, con il suo superfluente talento di narratore-affabulatore e con l’altrettanto stupefacente prolificità del suo gesto di pittore, disegnatore e illustratore. Mi chiedo se nella mia vita ci sia stato un tempo non segnato dalla presenza di Dario Fo.
Se ci siano state stagioni del nostro teatro e della nostra cultura che abbiano potuto prescindere da lui. Forse ci sono state, ma oggi con l’annuncio del suo congedo da noi, la prima sensazione, la più forte è che lui sia sempre stato con noi, che abbia sempre fatto parte della nostra vita, che il nostro paesaggio umano, culturale, teatrale e politico sia stato segnato dalla sua imprescindibile e travolgente esistenza.
La prima volta che ne sentii parlare fu per «Il dito nell’occhio» che per altro ero troppo piccolo per avere visto, ma chi me ne parlava lo faceva con il tono con cui si riferisce di uno spettacolo di culto, innovativo e «sovversivo».
La conoscenza diretta, con la sua faccia da intenso paesaggio irriverente, il fisico predisposto ad ogni possibilità espressiva fu in quella mitica Canzonissima. Con lui la compagna di palcoscenico e di vita di sempre e per sempre, Franca Rame. Per me giovane ribelle, ciò che grazie a questa coppia di commedianti irrompeva nel piccolo schermo addomesticato sembrava un miracolo, un fatto impossibile e infatti lo censurarono, a dispetto della sua qualità e della sua originalità.
Da quel momento in avanti la grande avventura del teatro di Dario Fo prendeva avvio con una forza e una radicalità inarrestabili. Un teatro di denuncia di opposizione alla violenza del potere, di scelta di campo dalla parte degli ultimi, dei lavoratori, dalla parte dei movimenti di opposizione, un teatro politico nel senso più alto della parola.
L’atto teatrale di Fo, a mio parere non fu mai ideologico, nell’accezione comune che si attribuisce solitamente a questa parola. E come poteva esserlo? Il grandissimo uomo di teatro che affondava le sue radici nella geniale tradizione della commedia dell’arte per reinventarla con una rivoluzionaria carica creativa, che traeva ispirazione dalla infinita ricchezza narrativa dell’affabulazione popolare, come avrebbe potuto essere al servizio di qualsivoglia contropotere per quanto estremo?
Gli attrezzi dell’arte di Dario Fo erano per loro natura irrituali, irriverenti, corrosivi, incontenibili nel quadro delle retoriche, delle olografie o delle celebrazioni di parte, quand’anche della «sua» parte. Parliamo della satira, dello sberleffo, dello sghignazzo, della caricatura feroce che smascherano il potere e ne mostrano le miserie, le meschinità e ne mettono in scacco la violenza.
Il potere ne percepiva immediatamente la carica deflagrante e gli scatenava contro i cani da guardia della censura e della repressione brutale e stupida, perché a nessun titolo poteva avere ragione di un teatrante assoluto come dario Fo. E con questa dotazione e l’insopprimibile spirito di ribellione sempre espresso come gesto artistico e pertanto contestualmente politico, di passo in passo Dario Fo approdò al suo capolavoro Mistero Buffo. Mistero Buffo resterà per sempre nella storia del teatro mondiale un vertice impareggiabile.
Per chi come me lo ha visto e rivisto rinnovare l’evento di una epifania che ha rivelato il prodigio di un attore drammaturgo che attraverso il proprio corpo, la propria voce e il proprio gesto, la parola che canta ha saputo incarnare in sé interi scenari umani, edificare con la narrazione l’epopea degli ultimi, degli esclusi, dei vessati e assestare alle pretese del potere, anche il più sacrale, il colpo di grazia dello sghignazzo e dello sberleffo, quel commediante dal ghigno che libera, dal fisico incontenibile nei limiti imposti, sarà il teatro stesso personificato.
Quando capitava di incontrarmi con lui, lo scambio di idee era il più diretto e il più semplice che si potesse immaginare ma io non dimenticavo mai, senza farmene accorgere, di prendere un po’ di distanza e di pensare: «Accidenti io me ne sto seduto qui di fianco a Dario ed è come se mi trovassi in presenza di Ruzante, di Goldoni o di Molière». Questa era la sua grandezza, ma non ne faceva mai mostra. Il suo Paese, la sua città non hanno saputo essere all’altezza di tanta arte, non c’è da stupirsi, al teatro e alla cultura si sanno applicare solo meschini tagli. A proposito, in questo momento vorrei esprimere un voto: che gli uomini delle istituzioni si astengano dai discorsi celebrativi, chinino un po’ il capo in segno di rispetto e tacciano.
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