La scomparsa di Mario Dalmaviva, vignettista e intellettuale del gruppo dirigente di Potere Operaio. Imputato nel processo del 7 aprile ’79 per la presunta «insurrezione armata», si ribellò con uno sciopero della fame di 60 giorni.
La sua serie di disegni satirici con la cella nera ha accompagnato una generazione di prigionieri politici. Dalle assemblee operaie e studenti alla Fiat fino all’impegno nel mondo dell’editoria, con Vivalda e la rivista «Alp»
È morto Mario Dalmaviva. Ha resistito più di altri: la statistica dei compagni del Processo «7 aprile 1979» che hanno subìto una ingiusta carcerazione preventiva (fino a 5 anni e 4 mesi, come Mario) e sono morti prematuramente per malattia è impressionante: Luciano Ferrari Bravo, Augusto Finzi, Guido Bianchini, Franco Tommei, Emilio Vesce, Sandro Serafini, Giorgio Raiteri, Paolo Pozzi, Gianmario Baietta, Antonio Liverani… insomma, la galera uccide.
Ma la ribellione di Mario all’ingiustizia è cominciata molto tempo fa, nel 1981, con uno sciopero della fame di sessanta giorni, per rivendicare la propria innocenza: il giudice Caselli lo aveva, poco prima del «teorema» del giudice padovano Calogero, prosciolto da tutti i reati torinesi per cui era inquisito. Ma anche per rivendicare la propria estraneità, dal carcere speciale di Fossombrone, al progetto delle Br di rilancio della lotta armata, attraverso le rivolte carcerarie.
Nonostante questa rabbia profonda, Mario è stato un rivoluzionario dolce, sorridente, che ha accompagnato le nostre galere con l’ironia delle sue vignette. Veniva da sociologia di Trento. Un dirigente di successo alla Bolaffi a Roma («facevo il giovin signore che andava a cavallo a villa Borghese al mattino») che, come Francesco (il riferimento oggi è un po’ scontato) si spoglia dei suoi averi, folgorato dal Maggio francese, partendo con una Vespa da Roma per Torino: lo si è visto per molto tempo all’Ospedale delle Molinette occupate a Torino dirigere l’assemblea operai-studenti della Fiat, con un portafoglio gonfio alla mano.
Aveva da poco conosciuto Sergio Bologna a Milano, Vittorio Rieser a Torino, con il quale aveva fondato la Lega studenti–operai, anticipatrice, con gli scioperi alla Lancia, dell’incontro sociale fra università e fabbrica ai cancelli della Fiat; una miscela esplosiva che per molto tempo ha fatto tremare padroni e sindacati, dalle grande vertenze salariali egualitarie, per lo meno fino alla grande insurrezione del 3 luglio 1969. La lotta continua si chiamava il volantino dell’assemblea permanente operai-studenti, densa di «angeli del ciclostile», che sui tre turni raccoglieva le informazioni di lotta dai reparti e le diffondeva alle porte al turno seguente, in un crescendo continuo di mobilitazione.
Quando l’assemblea operai-studenti «di Mario» si esaurisce, i gruppi di Lotta continua e Potere Operaio (cui Mario aderisce) si dividono. Fino agli ultimi spasimi dello scioglimento di Potere Operaio nel 1973, e anche oltre, Marione (così affettuosamente chiamato per la sua imponente, energetica figura), pur essendo con me e pochi altri in minoranza, dopo il convegno «insurrezionalista» del ’71 a Roma, ha militato nel gruppo con lealtà (e forse ingenuità), ritrovandosi così nel gruppo dirigente della presunta «insurrezione armata» del processo 7 aprile ’79.
Ma la vena poetica della sua vita quotidiana, che non dava tregua alle tendenze «seriose» di noi militanti, irrompe dal grigiore stereotipo del carcere, divenendo essenziale forma artistica: nasce la cella nera firmata «Viva», una vignetta che ha accompagnato, rispettando la tragicità dell’evento, ma sublimandolo nella satira, una generazione di carcerati politici.
Il suo «culone» alla finestra di casa a Torino, che commentava il mondo dagli arresti domiciliari dopo il carcere, è stato l’ultimo atto della sua funzione sociale di vignettista. Poi ha mutato, come molti di noi, le forme del suo impegno, occupandosi, questa volta da imprenditore attento al sociale, di editoria lavorando con la moglie Teresa alla casa editrice Vivalda e a riviste come Alp.
Da qualche anno si erano trasferiti a Perinaldo nell’entroterra ligure, seguendo gli odierni flussi spontanei di «ritorno alla montagna», dopo il grande esodo forzato degli anni Cinquanta verso la città fabbrica. «C’è stata, secondo me – confessò in un’intervista del 2001 – , una grande rivoluzione sociale in Italia; non è diventata, come volevamo noi, rivoluzione politica».
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