Negazionismo la legge che fa litigare gli storici

Shoah

Dire che la Shoah o un altro genocidio non è avvenuto è reato Ma può un tribunale giudicare il passato? Le posizioni contrapposte di Guido Crainz e Anna Foa

Chi nega la Shoah pubblicamente può essere punito con il carcere. Il negazionismo è diventato reato. Dopo nove anni di discussioni, di svariati rinvii tra i due rami del Parlamento, di vibranti appelli firmati dagli storici contrari, la Camera ha definitivamente approvato la proposta di legge che punisce il negazionismo con una pena da due a sei anni di reclusione.

Sotto il profilo giuridico, si tratta di una modifica apportata alla legge Mancino (legge 654 del 1975) che già puniva «la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale»: la modifica consiste nell’inasprire la pena nel caso in cui la propaganda sia fondata sul negazionismo, che diventa così un’aggravante. Ma non è chiamata in causa solo la negazione della Shoah. Pene più aspre anche per chi diffonda ideologie razziste fondate sulla «negazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». E qui toccherà ai tribunali dirimere questioni su cui la stessa comunità scientifica non ha mai trovato un accordo. Cosa distingue uno “sterminio” dal “quasi sterminio”? A che punto scatta la “nozione di genocidio”? «Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussioni possa finire in tribunale», ha dichiarato in passato Carlo Ginzburg nel contestare l’opportunità di una legge. E anche i giuristi si interrogano sull’opportunità del provvedimento quando la Corte di Strasburgo specie sui crimini diversi dall’Olocausto è sempre più favorevole alla libertà di espressione, contro i paletti posti dai diversi paesi. «Tutta la storia del Novecento rischia di finire in tribunale», sostiene Marcello Flores, direttore dell’Istituto storico della Resistenza. «E secondo quali criteri i giudici decideranno cos’è un crimine contro l’umanità e cosa non lo è?».

Si chiude così una storia infinita cominciata nel 2007, quando l’allora ministro della Giustizia Mastella avanza una proposta di legge per uniformare l’Italia ad altri ordinamenti europei (tra gli altri Germania, Austria, Belgio, Francia e Spagna). Quasi unanime la contrarietà manifestata dagli storici italiani tanto da indurre Palazzo Chigi a frenare sul dispositivo: il negazionismo è un fenomeno preoccupante, sostennero gli studiosi, ma si combatte con strumenti culturali, non penali. Sei anni più tardi, nel 2013, il Pd ripropone l’opportunità della legge. L’iniziativa appare legata a una suggestione emotiva, la tempestosa sepoltura dell’aguzzino Priebke che coincide con il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto. Ancora una volta, la quasi totalità degli storici denuncia i pericoli del provvedimento, tra gli altri «la trasformazione dei processi in cassa di risonanza per tesi ignobili». La legge fu messa da parte ma non per molto. E anche tra gli studiosi non sono mancate voci favorevoli alla necessità di una iniziativa legislativa, «che certo non risolve immediatamente il problema, ma può favorire una presa di coscienza da parte dei più giovani», ha sostenuto Anna Rossi-Doria. Ora l’ultima definitiva puntata, con l’approvazione della legge fortemente voluta dalla comunità ebraica. A festeggiare è soprattutto il presidente dell’Ucei Renzo Gattegna, che plaude a «un fondamentale strumento nella lotta ai professionisti della menzogna ». Soltanto il tempo potrà dire se è stata solo un’illusione.

 

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PERCHÉ NO

Le idee e la ricerca non devono essere censurate

ANNA FOA

Ecosì, alla fine, la legge sul negazionismo è stata definitivamente approvata dal Parlamento italiano ed è diventata legge anche in Italia. Ero, e continuo ad esserlo, tra quanti ritenevano questa legge un errore. Un errore sotto due diversi aspetti, quello della ricerca storica e della libertà di pensiero e quello dell’effettivo risultato che una legge del genere può portare. Cominciamo dal primo di questi due aspetti, quello che può sembrare meno importante, a torto perché implica una deroga ai principi fondamentali del nostro assetto politico e culturale. Con questa legge, infatti, si passa oltre quelli che erano i limiti della legge Mancino, legge che non era una legge su reati d’opinione, contrariamente a quanto sostenevano i suoi detrattori, che puniva chi diffondeva in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o incitava a commettere atti di discriminazione o violenze per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Ora, la modifica inserita per colpire il negazionismo introduce forti aggravanti ove questi atti di razzismo si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». Si introduce così una forte ipoteca da parte dei tribunali e della legge sulla ricerca storica e sulla libertà di scrivere e pubblicare, una sorta di via aperta verso una verità decisa dall’alto. Infatti, chi stabilirà che cosa rientra nei reati previsti? Chi deciderà se uno scritto, una ricerca, un libro di storia si basano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o degli altri genocidi? Questo è un salto nel vuoto molto grave.

È ancora più grave, io credo, proprio perché la legge è volta a difendere la memoria della Shoah e non invece il razzismo o l’antisemitismo. Si fonda cioè sulle buone intenzioni. Ma come la mettiamo con la legge polacca che commina la galera a chi offenda nei suoi scritti l’onore della Nazione, reato per cui è stato nel dicembre incriminato lo storico Jan Tomasz Gross, autore di ricerche importanti sulla Shoah e l’antisemitismo in Polonia? Vi sembra che si tratti davvero di misure di natura tanto diversa?

Per quanto riguarda il risultato di questa legge, chi l’ha sostenuta mira, credo, più che altro a un effetto deterrente. Non mi immagino infatti che ci saranno in Italia processi importanti, anche perché i negazionisti italiani sono veramente personaggi senza rilievo, meri antisemiti che si ricoprono di dignità storica e che dovrebbero soltanto essere lasciati nell’oscurità dove ora vegetano. Invece è possibile che con questa legge assumano un rilievo che non meritano, diventino martiri della libertà delle idee, dimentichino di essere i figli di chi i libri li bruciava in piazza per diventare tutti degli eroi della libertà. Mi auguro proprio che non vorremo dar loro tutto questo spazio. Più o meno, questo è il risultato che le leggi contro il negazionismo hanno avuto nei paesi d’Europa in cui sono state varate: una crescita del negazionismo e dell’antisemitismo, in tutte le sue sfaccettature.

Il negazionismo non si combatte nelle aule dei tribunali, ma nella ricerca, nella scuola, nell’insegnamento. Nelle aule dei tribunali si processano i perpetratori, non i loro esangui epigoni a tavolino, a meno che non si voglia diffonderne le idee e far loro da cassa di risonanza. La Shoah è l’evento storico più documentato della storia. Da dove abbiamo assunto l’idea di aver bisogno di leggi per proteggerne la memoria, invece che di docenti che ne insegnino le vicende, che riescano a creare negli studenti passione e interesse? Si è preteso di sostituire lo studio con le celebrazioni, ora si pretende di sostituire alla ricerca storica e all’insegnamento la censura e le aule dei tribunali. Facciamo attenzione almeno ad una cosa: non deleghiamo a questa legge, che ormai esiste e con cui bisognerà fare i conti, l’insegnamento del Novecento, lo studio della storia del nazismo, dei genocidi, delle violenze di massa. Continuiamo ad insegnarli, a studiarli, a trasmetterli. Continuiamo ad insegnare, insomma, anche se pensiamo di avere un’aula di tribunale che protegge le nostre ricerche.

 

PERCHÉ SÌ

Non sono opinioni ma propaganda per nuovi crimini

GUIDO CRAINZ

Ho seguito con disagio il dibattito sollevato dalla legge sul negazionismo, con una crescente difficoltà a riconoscermi nell’opinione quasi unanimemente ostile degli storici (ha fatto eccezione Anna Rossi-Doria con un importante contributo ad un convegno su questo tema, e nell’intervista che le ha fatto di recente Simonetta Fiori per questo giornale). Il disagio è inevitabile, credo: è difficile considerare sostanzialmente positiva una legge giudicata da amici e colleghi come liberticida. È difficile resistere ad appelli contro di essa che hanno visto il confluire di veri maestri della storiografia e di giovani e appassionati studiosi. Eppure una legge contro la negazione della Shoah a me sembra fondata, mentre la sua estensione ad altri casi mi lascia enormi dubbi.

Sono molte le argomentazioni messe in campo contro la legge in sè: contro una sorta di “verità di Stato” e contro norme volte a colpire la libertà di ricerca e di opinione (e sia pure l’opinione più aberrante). In più forme si è affermato che la battaglia per la verità storica si fa nelle università e nei luoghi di cultura, non nei tribunali; che le “verità ufficiali” sono proprie dei regimi totalitari; e che la legge può essere sin dannosa, creando la convinzione che il problema sia stato risolto una volta per tutte e possa quindi essere accantonato e rimosso. A me sembra che queste e altre argomentazioni, non prive di ragioni, rischino però di eludere un nodo di fondo: stiamo parlando di libero pensiero o di falsificazioni colossali, intrise di evidenti finalità politiche e “pratiche”? È “libertà di espressione” accusare le vittime di aver “inventato il mito” delle camere a gas e di essere dei miserabili mentitori? È possibile ignorare i nessi evidenti fra il negazionismo e il deliberato alimentare umori e pulsioni antisemite? O rimuovere il fatto che nei casi più radicali è l’esistenza stessa dello Stato di Israele che si vuole colpire, rianimando i peggiori demoni della storia contemporanea? Su questo nodo centrale a me sembra difficile nutrire dubbi, e non occorre neppure ricordare che il grande convegno negazionista di dieci anni fa non si svolse in una sede scientifica ma alla corte di Ahmadinejad, a Teheran: quell’Ahmadinejad che univa la denuncia della “menzogna sulla shoah” alla volontà di annientare lo Stato di Israele (furono molto diverse le logiche che portarono all’utilizzo di un falso colossale ed evidente come i Protocolli dei Savi Anziani di Sion?). Per questo mi sono faticosamente convinto che è giusto punire per legge il negazionismo sulla Shoah (e mi sembra invece sbagliata una estensione del reato): per l’unicità della tragedia e per la connessione diretta fra il negazionismo e l’intento di dare nuovo e criminale impulso all’antisemitismo.

Certo, hanno ragione gli oppositori della legge, è arduo e pericoloso tracciare il confine fra l’esposizione di un’idea e l’incitamento all’odio o la promozione di un reato, ma il negazionismo sulla Shoah mi sembra averlo abbondantemente varcato. Negarla, insomma, non mi appare l’espressione di un’opinione ma la perpetuazione di quel crimine in altre forme, e la possibile incubazione di altri crimini. E i crimini non si combattono solo con la diffusione delle idee giuste e dei principi di legalità: si combattono anche con le sanzioni. Si combattono introducendo in modo formale un profilo di legittimità e di illegittimità, e questo la legge mi sembra fare (in modo imperfetto e talora discutibile, ma non vorrei che i limiti oscurassero la sostanza). Lo penso e lo scrivo con il pudore sempre necessario in questi casi ma con l’assoluta convinzione che all’antisemitismo — di destra e di sinistra — non possano essere concessi varchi. Mai e in nessun luogo, a partire da quelli dell’educazione (e senza dimenticare le vergogne che circolano in internet). Certo, una legge non risolve il problema: separa però ciò che è lecito da ciò che non lo è; e non chiude ma apre semmai ulteriori vie al diffondersi di prese di coscienza collettive. C’è da interrogarsi piuttosto sulle chiusure reciproche che vi sono state, a me sembra, fra dibattito parlamentare e dibattito degli storici: non è stato comunque un buon segno.

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