«Non ti riconosco», un viaggio nella crisi del «made in Italy» a firma di Marco Revelli per Einaudi. Un libro sulla fine della grande fabbrica e dei distretti industriali, orfani di qualsiasi progetto di liberazione sociale
Un lungo viaggio per l’Italia, facendo tappa nelle città, le regioni, i luoghi che ne hanno scandito la storia nel lungo Novecento. È quanto fa Marco Revelli nel volume Non ti riconosco (Einaudi, pp. 250, euro 20). Il punto di partenza non poteva che essere Torino, la città operaia per eccellenza che Revelli conosce benissimo. Lì è cresciuto come intellettuale, lì è cresciuto politicamente. A questa company town ha dedicato altri libri e innumerevoli di articoli e saggi. Torino era il luogo di un modello di società da cambiare per costruire una «città futura». Non è andata così, come è noto.
Torino è diventata il ground zero del Novecento italiano. Di quella classe operaia che ha incendiato le menti di molti militanti ci sono solo flebili tracce, il resto sono aree dismesse, terreni inquinati, rottami, ruggine e una immensa sequenza di templi del consumo che ne hanno ridisegnato la geografia, anche sociale. Il centro storico è stato però ripulito, rimesso a nuovo; i sindaci che si sono succeduti negli ultimi dieci, venti anni hanno solo accompagnato l’approfondirsi della sua morte come città simbolo dell’Italia industriale. Alcuni con pragmatismo, altri con complice subalternità ai piani della Fiat di abbandonare la città per proiettarsi sul palcoscenico impalpabile della finanza. Come in tanti altri luoghi, gli operai cacciati dalla fabbrica non hanno avuto altra alternativa che sopravvivere alla lenta, ma progressiva desertificazione sociale; l’élite invece si è «deterritorializzata», recidendo i suoi legami con il territorio, altra parola magica che tutto dice per non affermare nulla.
Alla fine di un mondo
Si intuisce così il perché il titolo del libro è Non ti riconosco. Nel percorrerla, Revelli annota il disorientamento, lo smarrimento di chi quella città l’ha vissuta seguendo cortei, riunioni, incontri, studiando come solo un appassionato intellettuale militante sa fare. La classe operaia però non c’è più come soggetto politico. Esistono gli operai, che entrano ed escono dalla fabbrica con gli occhi e la testa bassa. Sono ridotti a merce, forza-lavoro, non più lavoro vivo, non più classe. Questo capitolo è la storia di una apocalisse sociale, culturale. E anche se l’autore non lo cita mai, ci sono forti echi di un grande interprete della «fine di un mondo», cioè Ernesto De Martino. Soltanto che il filosofo e antropologo italiano parlava della fine del mondo contadino, individuando nel progresso e nell’industria le avvisaglie di una nuova era.
Nella pagine torinesi di Revelli, di indizi di un nuovo da lì a venire ce ne sono ben pochi. Tante invece le avvisaglie di una rabbia sorda, di un ribollire di sentimenti tristi, di un razzismo strisciante, sempre pronti a sfociare in un pogrom, specialmente se l’altro da sé ha lo stigma dello zingaro.
Questa rabbia oscena, violenta consegna anche una seconda chiave di lettura del libro. Il «non ti riconosco» non si riferisce infatti solo alla morfologia sociale e urbanistica dei luoghi, ma anche al rifiuto diffuso di non riconoscere l’«eterogeneo umano», meglio l’altro da sé.
L’apocalisse sociale e culturale ha lasciato sul terreno molti frammenti tossici e per il momento ci si può solo accontentare di incontrare delle oasi, come quella che chiude il capitolo torinese, quando l’autore descrive un luogo dove uomini e donne si incontrano per condividere conoscenze e saperi. Si chiama coworkinged è frequentato da makers, quelle donne e uomini che provano ad immaginare prodotti, attività lavorative fondate sulla condivisione. Revelli evoca la sharing economy, ultima frontiera del «lavorare comunicando» sotto il regime del capitalismo che qualcuno in vena di classificazioni definisce «capitalismo 4.0», quasi fosse la nuova realise di un programma informatico invece che una variazione di un rapporto sociale di produzione, sempre diverso, ma sempre eguale.
Las Vegas in Brianza
La seconda tappa è la Brianza. È meticoloso Revelli nel descrivere i luoghi, le strade che conducono a una città fantasma che nelle intenzioni del suo ideatore doveva essere la Las Vegas italiana. Città del divertimento, un parco a tema per i sogni di godimento di una borghesia molto provinciale che aveva fatto diventare quella parte d’Italia un vitale distretto industriale. Decine, centinaia, migliaia di piccole imprese con una manciata di operai di qualità che macinava e faceva aumentare fatturati e ricchezza. Modello sociale e produttivo in antitesi con la grande fabbrica, dove il sogno di cessare di essere operaio per diventare padroni di se stessi ha scandito cinquanta anni di storia locale. Anche qui rimane ben poco di quel sogno, che per un breve periodo – i formidabili anni Settanta – ha pure alimentato conflittualità radicali. Non c’era l’operaio-massa, ma i figli di una modernizzazione che nutriva sogni, bisogni, desideri che il capitalismo 2.0 non poteva soddisfare. Il distretto, meglio i distretti industriali della Brianza si sono smontati come la panna montata. Questa volta la parola d’accesso alla comprensione di quel che è avvenuto è globalizzazione.
Zygmunt Bauman ha scritto che la fabbrica che funziona di più nella globalizzazione è quella delle vite da scarto. Tale affermazione vale, seguendo il percorso di Revelli, anche per l’Italia, in particolar modo quando si giunge nel nord-est.
Del nord-est in molti hanno scritto. Scrittori, filosofi, sociologi ne hanno tratteggiato la parabola ascendente e il tonfo seguito all’entrata della Cina nel club dei ricchi chiamato Organizzazione mondiale del commercio, meglio conosciuto come Wto. Da allora il susseguirsi interrotto di capannoni con villette adiacenti che scandisce la mappa del nord-est è stato ridotto a un triste catena di ruggine, erbacce. E di disperazione, visto il numero crescente di suicidi, visto che le banche hanno sbarrato le linee del credito perché l’insolvenza cresceva a causa dei mancati pagamenti della pubblica amministrazione o di committenti che hanno chiuso i battenti. Revelli parla, prendendo a prestito il titolo di un romanzo sulla crisi del nord-est, dell’effetto domino. Sta di fatto che questa «terza Italia» è passata dal miracolo economico alla implosione nell’arco di venti anni. Anche qui la rabbia schiuma e diventa xenofobia, razzismo.
Dopo questa nuova apocalisse sociale rimane ben poco da salvare. Revelli, tuttavia, scorge i prodromi di un capitalismo 4.0. Imprenditori che hanno introiettato il senso del limite, che dosano pazientemente consolidamento e investimenti per allargarsi. Che puntano sull’innovazione usando un lessico che ricorda quello dei makers torinesi: open source, condivisione della conoscenza, reciprocità, cura delle relazioni umane, valorizzazione delle competenze. Non un nuovo inizio, ma oasi in un paesaggio arido e vuoto. Anche qui niente politica. Nelle oasi si riprendono le forze, non si immagina un mondo nuovo, manda a dire l’autore. Ma forse è proprio da qui, da queste tendenze che la politica andrebbe ripensata. Non per improbabili alleanze tra imprenditoria illuminata e lavoratori della conoscenza, bensì per far sì che l’«eterogeneo umano» messo al lavoro si riappropri di ciò che produce.
Anche nel nord-est impera il lessico della paura e dell’odio. Ai negri, zingari, sono aggiunti i cinesi, protagonisti delle pagine dedicate a Prato, capitale del tessile made in Italy.
Bruciati vivi
Il libro di Revelli ha ripetizioni e differenze. Su queste ultime va posta l’attenzione. Prato è la città dove uomini e donne provenienti dalla Cina si uccidono di lavoro per poter immaginare un futuro. Dodici, sedici, diciotto ore a sgobbare, cosi come facevani i pratesi durante il periodo d’oro del distretto del tessile. Senza pagare le tasse, ignorando le regole sulla sicurezza, al punto che possono bruciare in un capannone perché rinchiusi là dentro da un padrone di turno. Qui il libro ci consegna pagine commoventi, da groppo in gola. E dove la scrittura di Revelli, misurata e curata come non mai nei suoi libri, non concede nulla alla retorica pietistica per quei poveracci bruciati vivi. Quei sette uomini e donne bruciati vivi nel sonno sono come quei pratesi che per tutto il Novecento sono morti di lavoro.
Il lettore è poi catapultato all’Ilva di Taranto, per poi proseguire fino alla piana di Gioia Tauro.
In questo squarcio di Sud il sogno progressista, anche comunista di vedere nello sviluppo industriale una possibilità per le «plebi meridionali» di affrancarsi da secoli di schiavitù tracima nell’incubo delle tantissime morti da cancro in una città ormai prigioniera di una fabbrica che uccide. E dove gli operai, come a Torino, hanno gli occhi e la testa bassa. Costretti a morire di cancro per sopravvivere. E che votano, a maggioranza, la proprio lenta, probabile condanna a morte bocciando un referendum che chiedeva la chiusura dell’Ilva,
A Gioia Tauro invece le cattedrali dell’industrializzazione hanno fatto arricchire faccendieri, imprenditori in abito blu. E la criminalità organizzata, diventa impresa globale, che usa il porto come una base per i suoi traffici e come bancomat, visto che chi lo usa come punto di attracco per i container deve pagare una quota alle ’ndrine. Qui si intrecciano faccendieri, criminali e imprenditori che scendono a patti con loro.
I marchi dei container scaricati nel porto di Gioia Tauro rivelano i legami di questo lembo d’Italia con il Messico (il narcotraffico), la Cina per l’export di merci scadenti e l’import di rifiuti industriali. Una logistica dove algoritmi sofisticati, piccoli padroncini e facchini costituiscono il medium di una valorizzazione capitalistica in cui l’economia criminale è una parte integrante.
Senza futuro
Anche nella piana di Gioia Tauro c’è una piccola oasi, ma è talmente piccola che serve solo a dare testimonianza di un imprenditore pulito e innovativo, che vive segregato nella sua fabbrica sorvegliata e protetta dall’esercito perché la ’ndrangheta vorrebbe farla saltare visto che il padrone non si prostrato alla «consuetudine» del pizzo. Per trovare una possibile via d’uscita da questa apocalisse sociale bisogna prendere il traghetto e sbarcare a Lampedusa. All’isola è dedicato l’ultimo testo che compone il libro. Il più commovente, il più arrabbiato. Ma è qui, in questo luogo di confine, il più periferico di una Italia irriconoscibile, che c’è il riconoscimento dell’eterogeneo umano. Per chi è al confine l’incontro con l’altro è scontato, così come il guardarsi negli occhi e vedere nell’altro da sé l’«eterogeneo comune».
È quello di Revelli un bello e disperante reportage sull’Italia del primo ventennio degli anni duemila. Quel che cattura l’attenzione è la tonalità no future della narrazione. C’è però poca immaginazione politica in questo libro, quasi che l’autore non sia più interessato all’antica domanda sul «che fare». La ricerca di una risposta può aiutare a ricomporre un puzzle e far sì che lo smarrimento che si ha non diventi evasione, disimpegno. È quell’«eterogeneo comune» che occorre indagare senza pulsioni essenzialiste visto che le dimensioni tipiche della specie sono diventate mezzi di produzione. Non si tratta, infatti, di cogliere l’essenza dell’essere umano, bensì di come l’individuo sociale produce un comune che viene espropriato desertificando la realtà. Un nodo difficile da sciogliere, ma indispensabile affinché le tante, diversificate forze-lavoro possono cessare di essere merci e diventare lavoro vivo, cooperazione sociale e produttiva, momento di liberazione. Con disincanto, certo. Con realismo, certo. Ma con la convinzione, forte, che le oasi non sono solo luoghi dove riprendere le forze, ma anche in cui è possibile cambiare le relazioni sociali all’interno e poi all’esterno dell’oasi stessa. Perché la terra promessa sarà tale soltanto se la trasformazione avviene qui e ora.
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