SAGGI. «Il silenzio della tortura» di Marina Lalatta Costerbosa. La storia giudiziaria, sociale e politica di un crimine estremo che svuota lo stato di diritto e veicola la logica della vendetta
Nel corso di una conferenza tenuta ad Heidelberg nel 1992, il sociologo Niklas Luhmann tentò di convincere l’uditorio circa l’inesistenza di norme irrinunciabili e assolute. Lo fece utilizzando un esempio estremo ma non improbabile di questi tempi: e se ci fossero terroristi spietati in grado di colpire nel mucchio in ogni momento? Davvero in questo caso non saremmo legittimati a praticare la soluzione estrema della tortura per salvare vite umane, conoscere i piani segreti dei nemici sanguinari, disinnescare gli ordigni?
L’interrogativo viene riproposto da Marina Lalatta Costerbosa, docente di filosofia del diritto, nel saggio Il silenzio della tortura (DeriveApprodi, pp. 132, euro 15). Il libro si propone di guardare negli occhi l’aguzzino, di riconoscere la tortura per combatterla per davvero. La questione è ancora più urgente nell’Italia del G8 genovese, paese occidentale della più grave violazione dei diritti umani dal dopoguerra secondo la nota sanzione di Amnesty International. Nella terra in cui alcuni sindacati di polizia di sono opposti strenuamente all’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico, rivendicando il fatto che questo avrebbe impedito ai tutori dell’ordine di svolgere il proprio mestiere serenamente. C’è poi lo stato di emergenza permanente causato dal terrorismo, che l’apologo luhmaniano sulla relatività della norma nelle società contemporanee chiama in causa. Per rispondere alla provocazione di Luhmann, l’autrice evoca una situazione altrettanto estrema: l’atroce testimonianza di Heinrich Hamann, Ss e vicecapo della polizia nazista sulla frontiera polacca.
Quest’ultimo spiegò che chiaramente il suo compito di aguzzino non era quello di «ristabilire la verità». Al contrario, i suoi supplizi servivano a «costruire una solida comunità della violenza». La spietata lucidità del gerarca introduce il primo cortocircuito tra verità e menzogna cui ci si trova davanti nel compito, tutt’altro che scontato, di definire la tortura.
Lalatta Costerbosa si fa carico di questa genealogia prendendo le mosse dalla nascita della sovranità moderna. Dai tempi dell’Inquisizione e del Principe di Machiavelli ai manuali di tortura della School of Americas, che si avvalse della consulenza del capo della Gestapo di Lione Klaus Barbie e che giocò di sponda con le pratiche coloniali e neocoloniali, il libro intreccia il piano giudiziario con quello sociale e politico.
Il «crimine estremo» di cui si occupa il testo ha a che fare dunque sia con la ricerca della «verità» che con il mantenimento della menzogna, del potere e dell’arbitrio assoluto. La tortura colpisce un individuo ma minaccia chiunque, ha spiegato Cesare Beccaria, perché mette sullo stesso piano colpevole e innocente. Ecco la forza politica di questo atto che prima di ogni altra cosa produce silenzio, serve a distruggere legami sociali e a generare «morti senza tomba», secondo la definizione di un dramma di Jean-Paul Sartre. Il supplizio non è codificabile solo tramite parametri quantitativi. Fin quando è lecito esercitare violenza? Chi decide fin dove è legittimo posizionare l’asticella? Bisogna impiegare anche strumenti qualitativi per comprendere come il trauma della tortura distrugga la personalità della vittima, in che modo l’esercizio di un potere, al quale è impossibile sfuggire persino togliendosi la vita, produca conseguenze sociali: «La paura del tormento è tormento», scrisse ancora nel diciassettesimo secolo Jean Bodin.
Siamo al secondo, tragico, paradosso, denso di significati politici ancora più del primo: l’aguzzino è abile quando riesce a far sopravvivere la sua vittima, pur sottoponendola a violenze atroci. Soltanto sopravvivendo, costretto alla confessione o alla delazione e poi ridotto al silenzio più vero, condannato alla morte senza tomba, il torturato assolverà il suo compito più profondo, performativo, politico. Se ne accorse nell’Algeria coloniale Henri Alleg, quando da giornalista e militante venne sottoposto dai francesi a sedute di waterboarding, pratica risalente all’Inquisizione, arrivata in Italia per estorcere informazioni ai militanti della lotta armata e definita nel post 11 settembre dall’allora direttore della Cia «tecnica di interrogatorio professionale». Per salvarsi, Alleg pretese che i suoi aguzzini gli dessero del «voi». Dal canto suo, l’«Intellettuale ad Auschwitz», secondo il titolo italiano del suo libro più noto, Jean Améry comprese che l’antidoto alla distruzione di sé dentro il lager era mantenere una qualche forma di umanità. Bisogna provare sempre, nonostante la sproporzione di forze, a «ribattere il colpo». Riemerge qui la capacità di resistenza e la caratteristica tipicamente umana. Tutto il contrario dell’ordine muto generato del supplizio e dalla paura solitaria che questo vuole produrre.
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