Nei giorni scorsi il Tribunale del riesame, revocando tutti gli arresti domiciliari e alcuni obblighi di firma, ha, ancora una volta, ridimensionato l’impostazione della procura torinese, che avrebbe voluto addirittura gli imputati in carcere
Ci sono fatti, pur all’apparenza minori, che consentono di cogliere in modo plastico il senso di alcune vicende giudiziarie. Sono accaduti di nuovo, nei giorni scorsi, in Val Susa (sempre più cartina di tornasole delle peggiori derive istituzionali). Non si è trattato, questa volta, di contestazioni, tanto drammatiche quanto fantasiose, di terrorismo e neppure del tentativo di ridurre al silenzio voci fuori dal coro. Si è trattato «soltanto» di una, a dir poco anomala, applicazione di arresti domiciliari e di obblighi di presentazione a otto attivisti No Tav imputati di resistenza a pubblico ufficiale per un episodio non dissimile, quanto a rilevanza penale, da un banale diverbio stradale. Nei giorni scorsi il Tribunale del riesame, revocando tutti gli arresti domiciliari e alcuni obblighi di firma, ha, ancora una volta, ridimensionato l’impostazione della procura torinese (che avrebbe voluto addirittura gli imputati in carcere) ma ciò non toglie, anzi sottolinea ulteriormente, la gravità e il segno dell’operazione.
I fatti, dunque, come descritti nell’ordinanza cautelare. Il 17 settembre 2015 un’autopattuglia del carabinieri di Susa ferma un furgone con a bordo due attivisti No Tav che rientrano da una «estemporanea iniziativa di contestazione svoltasi al cantiere di Chiomonte». Il conducente del furgone, pur noto ai carabinieri operanti, esibisce carta di identità e documenti di circolazione del mezzo mentre il passeggero rifiuta di declinare le generalità. Durante il controllo sopraggiunge un’auto con quattro attivisti che ingaggiano un’accesa discussione con i carabinieri nel corso della quale uno dei presenti afferra per un braccio e strattona il maresciallo dell’autopattuglia. Nulla di più e nulla di meno. Sei mesi dopo, le misure cautelari. Eseguite in modo spettacolare e con il corredo di perquisizioni domiciliari e personali a raffica. Si legge in uno dei decreti autorizzativi che le perquisizioni, finalizzate alla ricerca di «materiali e documentazione anche su supporto informatico inerenti i fatti per cui si procede», non devono riguardare solo gli imputati ma «qualunque altro soggetto anche solo temporaneamente presente nei luoghi perquisendi» e possono avvenire anche in ora notturna («stanti le ragioni di urgenza dovute al pericolo che si disperdano ovvero deteriorino in tutto o in parte le prove e tracce relative ai reati contestati»).
C’è da non crederci. La discussione tra attivisti e carabinieri era incontestata e descritta da subito sui siti del movimento, il fatto era di evidente modestia, i partecipanti erano tutti valligiani conosciuti dai carabinieri e da essi identificati (come precisato nell’annotazione di polizia giudiziaria), cinque di loro erano incensurati. C’erano dunque, a tutto concedere, le condizioni per un ordinario processo a piede libero in cui discutere di molte cose: delle reali modalità del fatto, delle responsabilità dei singoli (posto che alcuni degli imputati non risultano neppure essere intervenuti nella discussione), di eventuali reazioni ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali (alcuni dei quali usi rimpiangere i metodi del fascismo) e via elencando. Perché, dunque, le misure cautelari? E perché le perquisizioni, all’evidenza inutili ai fini dichiarati (per la natura del fatto contestato e per il tempo da esso trascorso)? E ancora: perché perquisire le persone temporaneamente (e magari casualmente) presenti nei luoghi in cui si trovavano gli imputati? Perché costringere a denudarsi, con l’accompagnamento di commenti volgari e umilianti, tutte le donne presenti? Quali materiali inerenti un episodio di resistenza potevano trovarsi nei computer o nei telefoni sequestrati a persone non gravate da alcun indizio di partecipazione al reato? Perché sequestrare (come puntualmente accaduto) oggetti del tutto privi di significato con riferimento alla resistenza? Quali ragioni di urgenza imponevano, sei mesi dopo i fatti, di procedere in tempo di notte?
La risposta è tanto semplice quanto preoccupante. Per anni magistrati autorevoli e meno autorevoli – supportati da schiere di giornalisti e commentatori – hanno gridato ai quattro venti che gli interventi repressivi disposti non riguardavano il movimento No Tav ma solo reati specifici commessi da frange estremiste e violente, per lo più estranee alla Val Susa. Così cercando di dividere e di isolare. Ora anche la maschera è caduta. I destinatari delle misure cautelari sono stati vecchi e giovani valligiani imputati per fatti che in ogni altra parte d’Italia avrebbero meritato, al massimo, un dibattimento di routine al di fuori da ogni «corsia preferenziale». E le perquisizioni effettuate, nella loro inutilità e improprietà, evocano un intento persecutorio e intimidatorio e una prassi di indagine senza limiti alla ricerca di non si sa che cosa. Bersaglio dell’intervento repressivo è sempre più chiaramente, in altri termini, il movimento no Tav in quanto tale (e, dunque, l’attività di opposizione da esso svolta). A conferma – se ce ne fosse bisogno – di quanto accertato dal Tribunale permanente dei popoli nella sentenza 8 novembre 2015 nella quale si segnalano, in Val Susa, «risposte istituzionali che spesso hanno superato la soglia fisiologica del mantenimento dell’ordine democratico e dell’equilibrato perseguimento dei reati, inducendo – per le loro modalità, distorsioni o eccessi – significative violazioni di diritti costituzionalmente garantiti». È un segnale da non sottovalutare, non solo per la Val Susa.
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