SCAFFALI. «Del terrorismo come una delle belle arti» di Mario Perniola per Mimesis. Gli anni Settanta e le «formazioni combattenti» attraverso il grimaldello della filosofia
Autobiografia politica e intellettuale di una generazione tra Roma e il Giappone, con puntate in Francia tra un convegno sul surrealismo a Cérisy-La-Salle e i luoghi dove Guy Debord e i situazionisti nutrirono l’ultimo legame tra le avanguardie artistiche e la rivoluzione. Affabulanti, dolenti, amanti, tremende: sono le otto «storiette» contenute in Del terrorismo come una delle belle arti di Mario Perniola (Mimesis, pp. 211, euro 16) che intrecciano i ritratti familiari, gli amori di una vita e le traiettorie rivoluzionarie della generazione 68, facendo anche la scelta della lotta armata.
La «storietta», scrive con ironia uno dei perturbanti filosofi italiani, è ciò che resta a chi non è «riuscito a fare la storia». La storietta genera ilarità o gronda sangue, è priva di esemplarità e costituisce un genere minore. Questo libro racconta la transizione da un mondo storico fatto di storie, collettive e individuali, pubbliche e private e di coloro che hanno cercato di forzare il vettore del tempo con un’azione rivoluzionaria. «Chi ritiene che solo il sangue e il terrore attribuisca agli avvenimenti un profondo significato storico si è dovuto ricredere» scrive il filosofo pensando ai terrorismi di sinistra degli anni Settanta in Europa o alla tragedia omicida dei membri dell’Armata rossa giapponese che mettevano a morte i dissenzienti. La generazione del 68 non comprese la trasformazione della storia in simulacro. Sembra che Alexandre Kojève dicesse del Maggio che il «sangue non fosse colato e che quindi nulla di serio fosse accaduto». In Italia di sangue ne è colato molto, «ma ugualmente nulla di decisivo è avvenuto».
Di solito, queste considerazioni portano a rimpiangere un’età dell’oro della «grande storia» e alimenta il narcisismo dell’intellettuale diventato testimone della Storia nella fine della politica. Perniola non si fa sedurre dalla fatuità di una cultura invecchiata e metafisica che porta alla teologia politica. La sconfitta di una generazione «che si sentiva defraudata della possibilità di essere artefice della propria storia», a cui appartiene lo stesso autore, non nega la possibilità perseguita dal surrealismo: un’esperienza plurale e multipla nella quale il pensare e l’esistere sono inseparabili e il cui senso emerge dall’incrocio con esperienze diverse. I surrealisti avevano cercato di collegare questa esperienza alla «grande storia» e questo fu il loro limite, come di altre avanguardie. E tuttavia nelle loro «storiette» dell’humor noir, dove si manifesta il meraviglioso o l’imprevisto della «Storia», si intravede il mondo oltre questo limite. Il ricorso all’umorismo e al rovesciamento delle catene causali oggettive serve a praticarlo con il paradosso, l’esempio e la sperimentazione.
Nella «storietta» che intreccia biografia e riflessione estetica Perniola rinnova l’impegno degli antichi filosofi cinici. Si esprimevano attraverso aneddoti e fatterelli, non miti o vicende epiche che spinge la «Storia» nell’imbuto del terrore. L’avanguardia non è una delle belle arti, ma il progetto di vivere la verità del mondo senza vincolare la vita alla realizzazione di ideali trascendenti. Obiettivo mancato da quella generazione che intuì «nella pulsione delirante verso una radicalità rivoluzionaria e una purezza morale intransigente», ma avvertito nelle pieghe di una vita dove, in maniera rapsodica, le opzioni più estreme sono quelle più realistiche.
Questo libro denso e commosso parla della necessità, e della virtù, di costruire l’autonomia personale, intellettuale, artistica, schivando il terrorismo che si manifesta nell’emarginazione o intimidazione di chiunque desidera sottrarsi alla società della comunicazione.
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