“non rispettare leggi che non ci rispettano”, come viene detto in Suffragette, è persino un dovere, più ancora che un diritto
Quando sembra che nulla può cambiare, spiega Maud Watts, la protagonista del film Suffragette, sono i movimenti in basso a mettere improvvisamente al centro “la possibilità di pensare che la vita può essere diversa”. E quando la repressione contro i movimenti di resistenza sembra non lasciare speranze, si aprono sempre crepe in cui disobbedienza e mutuo soccorso fanno intravedere qualcosa di diverso, come accaduto perfino nelle isole del confino durante il fascismo, diventate straordinari laboratori di solidarietà tra mense, spacci, assistenza alle famiglie ma anche scuole e biblioteche. Un film e un libro aiutano a coltivare memoria e arte del dissenso
di Carlo Ridolfi*
Un bel film e un ottimo libro ci invitano a riflettere su concetti e princìpi che qualcuno potrebbe considerare inattuali, ma che hanno in sé, ancora e sempre, un valore irrinunciabile.
Il film è Suffragette diretto da Sarah Gavron, scritto da Abi Morgan, con uno straordinario cast di attrici che ha la sua punta di diamante nella giovane e bravissima Corey Mulligan. Il libro, anch’esso prodotto in Gran Bretagna, come il film, ma di autrice italiana, si intitola A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia (1926-43), è edito da Carocci ed è stato scritto da Ilaria Poerio, che è dottore di ricerca in Italian Studies presso l’Università di Reading.
Ci troviamo quindi nell’ambito geocronologico che sta tra l’Inghilterra del periodo 1912-28 e l’Italia del fascismo.
Forse sarebbe il caso di raccontare alle ragazze che magari andranno a votare per la prima volta in occasione di una tornata di amministrative o dei referendum sulle trivellazioni o sulle riforma costituzionale che il 2016 è distante appena settant’anni dalla prima volta in cui nel nostro Paese le donne poterono accedere al suffragio universale. Ma questo potrebbe anche essere solo un dato storico, se non si ricordasse loro, e a tutti noi, come fa il film di Sarah Gavron, che non è mai stato dato nel corso del tempo l’ottenimento di diritti che a noi oggi potrebbero sembrare elementari senza lunghi e spesso dolorosi percorsi di rivendicazione. Proprio in apertura del racconto cinematografico si utilizza in una didascalia illustrativa il sostantivo lotta, il quale, insieme a conflitto, definisce con estrema e sintetica precisione quale sia stata e sia sempre la strada da fare per generare conquiste innovative.
Sono due termini che sembrano non solo esser usciti dal vocabolario politico (e, a volte, anche sindacale) almeno degli ultimi vent’anni, ma che paiono esser considerati da commentatori, teorici, analisti e anche ideologi come iatture da relegare in un passato remoto che non si vuole torni in alcun modo. Potrebbe esser buffo, se non fosse una tragedia, considerare per inciso che fra i massimi spregiatori delle due parole proibite ci sono spesso gli stessi che in queste settimane, come dal ’91 in avanti, lodano gli interventi armati, cioè la guerra, comunque la si voglia travestire da azione umanitaria in soccorso di governi in difficoltà, come l’unico possibile mezzo di risoluzione dei conflitti.
C’è un momento potentissimo in Suffragette, non l’unico, ma probabilmente quello più efficace, costruito con una sfocatura fino al bianco assoluto delle donne-attrici che stanno per uscire in strada a seguire il funerale della loro compagna che si è immolata per la causa, alla quale si sovrappongono in dissolvenza incrociata le immagini documentarie dello stesso funerale ripreso dai cineoperatori nel 1912 (e ancora una volta è possibile apprezzare quanto il cinema diventi fonte storica a partire dalle sue origini). Sono le donne di quell’epoca, vere e vere in quanto appunto documentate anche cinematograficamente, che testimoniano quanta sofferenza e tenacia ci siano volute per ottenere l’accesso alla vita pubblica a pieno titolo.
Non abbiamo di fronte la ricostruzione di un’epoca remota in una terra senza regole. Siamo nella civilissima Inghilterra dei primi anni del Novecento, patria quattro secoli prima della Magna Charta Libertatum e culla di grandi innovazioni politiche, tecniche, sociali. Eppure anche lì – come, e ce lo ricordano opportunamente le didascalie finali, molte nazioni dopo il Regno Unito e altre che ancora nel terzo millennio non sono arrivate a concedere il voto alle donne –sembrava che nulla potesse cambiare e che, anzi, i cambiamenti che venivano a gran voce richiesti avrebbero portato alla dissoluzione della convivenza civile, al caos, alla catastrofe.
Così come non si aveva a che fare con orde di isteriche disadattate, ma con la (provvidenziale) saldatura tra signore della buona borghesia che avevano elaborato strategie e tattiche per ottenere i diritti ai quali sapevano di poter e dover accedere e donne del popolo che avrebbero unito al diritto di voto, ad esempio, il riconoscimento della maternità come responsabilità e possibilità di decisione nei confronti dei figli che fino ad allora era assegnato solo ai padri.
Come dice in un momento emozionante Maud Watts, il personaggio interpretato da Corey Mulligan:
“È la possibilità di pensare che la vita può essere diversa”.
Probabilmente lo stesso concetto deve aver attraversato la mente di quanti, uomini e donne, circa 15.000 persone ci dice l’appassionante e documentata ricerca di Ilaria Poerio, hanno subìto nei vent’anni del fascismo persecuzioni per il loro appartenere politico (ma anche, semplicemente, se così si potesse dire, per essere rom o omosessuali o altro che non fosse inscrivibile nei caratteri rigidi di un’ideale fissato dal regime) e, di conseguenza, arresti, detenzioni, anni di invio al confino.
Situazioni le più critiche possibili, che negli scopi del potere allora costituito avrebbero dovuto fiaccare e piegare qualsiasi possibilità di visione altra rispetto allo statu quo imposto.
Così non accadde, come nel volume viene rappresentato più e più volte, anzi. Le isole del confino diventarono per molti uno straordinario laboratorio non solo per mettere in azione pratica quegli interventi di solidarietà (mense, spacci, assistenza alle famiglie) che già avevano dato origine mezzo secolo prima alle società di mutuo soccorso, embrione generativo del più ampio movimento sindacale, ma anche per realizzare vere e proprie scuole, sia sulle materie che oggi si direbbero curricolari sia su ambiti più generali e complessivi di sapere e di ricerca, e biblioteche e circoli di discussione intellettuale e politica.
Un solo esempio, tra i moltissimi riportati. Comunque la si pensi sulle rispettive scelte politiche, si veda come due giganti come Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga organizzavano le loro discussioni e si apprezzi il riecheggiare di modelli dialettici che risalgono fin all’antica Grecia. Scrive Bordiga:
… in quel periodo, allorché con un uditorio di altri confinati veniva in discussione un problema che interessasse i nostri princìpi e il nostro movimento, Antonio e io, come per una tacita intesa, ci offrivamo di illustrare ai presenti la visione che l’altro propugnava sul tema esaminato. Con ciò, è chiaro che nessuno dei due voleva in qualche modo attenuare il proprio dissenso dal pensiero dell’altro e della sua corrente. La doppia esposizione si concludeva di regola con una reciproca conferma, chiesta e ottenuta, di avere bene interpretato l’insieme delle concezioni dell’altro.
Possiamo ricordarci dunque, per favore, anche grazie ad un film e ad un libro, alcuni elementari concetti di base? Ad esempio che nessun tipo di potere, da quello più piccolo ai leviatani più mastodontici, concede alcunché spontaneamente; che ogni conquista passa attraverso lotte e conflitti e che è necessario non ignorare questa semplice verità ma considerare piuttosto la congruenza tra i fini che si dichiarano voler esser raggiunti e i mezzi che si scelgono di utilizzare per il raggiungimento; che l’obiezione di coscienza ha la sua forza principale nel secondo termine della formulazione, in quanto “non rispettare leggi che non ci rispettano”, come viene detto in Suffragette, è persino un dovere, più ancora che un diritto.
Se così non fosse, da che epoca storica ha visto in confronto gli esseri umani, saremmo ancora a chiederci se le donne abbiano un’anima, se le persone di colore diverso dal nostro appartengano al nostro stesso genere, se i bambini che abbiano una qualche forma di disabilità debbano essere confinati in classi speciali destinate solo ad essi senza comunicazione con il mondo dei cosiddetti normodotati.
Pensieri pericolosi, che non sono affatto espunti dal dibattito quotidiano, né quello a volte raccogliticcio e gracchiante dei social network e nemmeno quello apparentemente più corretto e analitico di editorialisti e produttori di circolari ministeriali.
Farne memoria e fare attenzione, continue. O, come diceva Altiero Spinelli a Ventotene: convincere e organizzare.
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