Anche quest’anno durante il «giorno del ricordo» non sono mancate grottesche manipolazioni della celebre foto di Dane e delle vicende legate al confine orientale. Vespa, Storace e gli altri: ideologia della «narrazione altra»
La foto è molto conosciuta o dovrebbe esserlo. Siamo nel villaggio sloveno di Dane (Loska Dolina) è il 31 luglio 1942 e cinque militari del regio esercito italiano fucilano alla schiena cinque civili jugoslavi.
L’occupazione fascista della Slovenia dura da oltre un anno (dal 6 aprile 1941) ed è da tempo in atto da parte del governo di Mussolini la cosiddetta politica di «snazionalizzazione» consistente nella sostituzione, tramite la deportazione in campi d’internamento o la soppressione in loco, della popolazione civile «allogena» (cioè jugoslava) con quella italiana.
Nonostante la notorietà dell’immagine, conservata presso l’archivio dell’Istituto storico della capitale slovena Lubiana, anche nella celebrazione di quest’anno del «giorno del ricordo» non sono mancate grottesche manipolazioni di una fotografia che già nella trasmissione di Raiuno Porta a Porta venne presentata a parti invertite, con gli italiani vittime della fucilazione e gli jugoslavi carnefici.
Da ultimo lo ha fatto Francesco Storace, candidato sindaco di Roma, che ha riprodotto la strage di Dane avendo cura di disegnare il tricolore italiano dietro la schiena dei fucilati ed una falce e martello rosso sangue dietro quella del plotone di esecuzione, ammonendo, con significativa ironia involontaria, che «la sinistra dimentica» ma loro, La Destra, no.
Tuttavia il significato dell’episodio, in un paese come l’Italia, non è certamente circoscritto e circoscrivibile alla sola area politica della destra ex missina. Dopo dodici anni di celebrazioni ufficiali del «giorno del ricordo» e dopo un profluvio di fiction, talk show e spettacoli teatrali le vicende del confine orientale più che un «patrimonio costitutivo della nostra identità» — come affermato dal ministro degli Esteri Gentiloni — sembrano rappresentare una «narrazione» della storia piuttosto che la sua ricostruzione «svincolata da ideologie».
Così se da un lato l’etnicizzazione del conflitto (evocata dalla rappresentazione semantica di una violenza «slava» contro gli italiani «solo perché italiani») diviene strumento utile a svincolare storicamente il nostro paese dall’eredità criminale del fascismo, dall’altro l’associazione tra l’Esercito Popolare di Liberazione (Eplj) e l’ideologia comunista ripristina nell’immaginario collettivo il vecchio uso propagandistico che il fascismo degli anni venti fece dello «slavocomunista».
Chiunque abbia anche solo sfogliato un libro di storia sa che la Guerra di Liberazione portò l’Eplj a risalire e riunificare il territorio jugoslavo occupato combattendo e sconfiggendo il nazifascismo nella sua dimensione politica e non etnica, tanto che nemici di Tito furono anche altri jugoslavi collaborazionisti come gli ustascia croati, i cetnici serbi ed i domobranci sloveni oltre che i nazisti tedeschi e i fascisti.
Il «narrato italiano» poggia poi le sue basi su un solido pilastro della rappresentazione della storia nazionale: quel paradigma vittimario che sintetizza insieme aporie della memoria; uso politico della storia e ricomposizione selettiva del vissuto individuale e collettivo.
In questo modo l’aggressione fascista alla Jugoslavia; i crimini di guerra del regio esercito nei Balcani; l’impunità garantita istituzionalmente ai responsabili politici e militari nonché il loro riutilizzo in seno agli apparati di forza dello Stato nel dopoguerra, vengono espunti dal «patrimonio costitutivo della nostra identità» armonizzato, di contro, intorno al falso mito autoassolutorio del «bravo italiano» e ad un’immagine «patria» che ci presenta come inconsapevoli vittime ora del regime mussoliniano ora della cieca violenza slavo-comunista.
Quella del 10 febbraio (ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi e non delle violenze sul confine orientale del settembre 1943-maggio 1945 definite tutte in modo generico e non veritiero «infoibamenti») si inserisce in una scelta di giornate della «memoria di Stato» che lungi dall’essere un «calendario civile» codifica legislativamente una «narrazione altra» da quella definitasi storicamente in termini fattuali.
Così a date fondative come il 25 aprile 1945 (Insurrezione nazionale e Liberazione d’Italia) o il 2 giugno 1946 (nascita della Repubblica) si sovrappongono nelle cerimonie ufficiali ricostruzioni che, deboli sul piano storico-scientifico, necessitano della «protezione» non solo della propaganda politica bipartisan ma anche di progetti di legge ad hoc, fortunatamente per ora accantonati, che con la motivazione di combattere il negazionismo vorrebbero sancire limiti di legge alla ricerca.
In ultimo, dunque, ci domandiamo: Francesco Storace, Bruno Vespa e tutti coloro che hanno rovesciato la realtà impressa dalla foto di Dane dovrebbero forse essere perseguiti penalmente per negazionismo?
Certamente no. Sarà sufficiente la sanzione della Storia.
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