Intervista. L’associazione mette a disposizione le competenze acquisite dai movimenti in anni di battaglie contro repressione e carcere
Il telefono si illumina e vibra. Suona per tre volte. Se dall’altra parte nessuno risponde, la chiamata viene deviata automaticamente ad un altro cellulare, per altri tre squilli. Se ancora non c’è risposta, lo squillo rimbalza su un altro numero e così via, a cascata su un elenco di utenti.
Fino a quando qualcuno degli operatori non preme il tasto verde del suo apparecchio e accoglie la richiesta di soccorso. È questa l’ossatura essenziale del numero verde di Acad, associazione che ha trasformato la sigla che manifesta la diffidenza delle bande di strada verso le forze dell’ordine (Acab: «All cops are bastards») in una struttura di supporto «contro gli abusi in divisa». In questi giorni Acad compie due anni.
Al pronto intervento contro i soprusi di potere arrivano in media circa dieci chiamate a settimana. Queste telefonate sono l’emblema di una catena che rompe la solitudine, squarci di verità in un paese che si sta accorgendo di avere un problema con le forze dell’ordine. Snocciolare gli anelli di questa catena significa ripercorrere una Spoon River di morti violente.
Vuol dire raccontare storie che sarebbero affogate nell’isolamento se non si fosse messo in moto un processo di condivisione e mutuo soccorso che le ha messe in relazione. «Ogni squillo al telefono verde di Acad è un colpo al cuore, ad ogni chiamata spero che sia solo una richiesta generica di informazioni o anche uno scherzo stupido. Mi auguro con tutto me stesso di non trovarmi per l’ennesima volta davanti a una tragedia inaccettabile», racconta uno dei volontari di Acad al Manifesto.
Eppure questi due anni di esperienza dolorosa insegnano molto. «Le ore immediatamente successive all’abuso sono quelle più importanti — racconta Luca Blasi, che lavora al nodo romano dell’Associazione — Serve subito un avvocato, nel caso di decesso è fondamentale il perito di parte, così come è necessario verificare che l’autopsia venga svolta correttamente». In questi anni di lavoro, quelli di Acad si sono resi conto che, accanto alle questioni tecniche, sono importanti anche gli aspetti comunicativi.
Può essere decisivo avere la forza e la lucidità di raccontare subito la vicenda per quella che è, divulgare il più possibile storie che smentiscano quelle ufficiali, in base alle quali — ad esempio — Federico Aldrovandi è stato descritto un drogato che si uccise da solo, per di più buttandosi addosso ad un manganello e spezzandolo. Di Davide Bifolco, ucciso da un colpo partito dalla pistola di un carabiniere alla periferia di Napoli, si disse invece che portava «un latitante» sul motorino. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, dovettero rompere il galateo del pudore e mettere in scena i corpi martoriati dei loro cari per bucare il muro di gomma dell’informazione. Dopo la riapertura delle indagini, scattata anche grazie alla grande fiaccolata convocata dai Cucchi e da Acad a piazza Indipendenza, di fronte al Csm, Ilaria ha scelto di nuovo di mettere in scena l’orrore. Ha divulgato le foto di alcuni dei carabinieri coinvolti nella morte di Stefano.
Lo stesso ha fatto Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto sette anni fa a Varese dopo aver passato una notte in una caserma dei carabinieri.
«Ilaria e Lucia hanno consentito che migliaia di cittadini si rendessero conto che ci sono delle persone in carne e ossa dietro il vanto di aver pestato a sangue “un drogato di merda”. Nascosto dietro questo orrore, non c’è una figura astratta, c’è persino un sorriso», riflette ancora Blasi a proposito della diffusione virale di quelle immagini e della polemica che ne è scaturita.
Acad nasce da un’intuizione semplice quanto opportuna: mettere a disposizione del maggior numero possibile di persone le competenze legali, comunicative e politiche acquisite dai movimenti in anni di battaglie contro repressione e carcere. Non più una doverosa manovra di nicchia ma un’operazione di tutela dei diritti civili nel paese dei misteri insabbiati e delle macellerie messicane.
Nel gennaio del 2014 a Bergamo, il primo evento pubblico. «La nostra forza è l’unione, se restiamo soli non possiamo nulla», disse quel giorno Domenica Ferrulli, figlia di Michele, manovale di 51 anni, morto durante un fermo di polizia a Milano nel 2011. «A proposito di Ferrulli bisogna ricordare una cosa importante — raccontano da Acad — ammanettare una persona mettendogli le mani dietro la schiena e poi appoggiarsi col ginocchio sul suo corpo, pancia a terra, è molto pericoloso».
È morto così Federico Aldrovandi. Morì così anche Ferrulli. «Quella posizione causa soffocamento o compressione del cuore. Quella manovra non andrebbe più insegnata nelle scuole di polizia. E invece per quel che ne sappiamo costituisce ancora la normale prassi». Ci sono famiglie che hanno la forza di agire, prendere parola, sfidare la pubblica autorità. In quei casi Acad svolge un lavoro di supporto.
Ma spesso gli abusi si verificano in zone grigie, in situazioni difficili, in particolari contesti ambientali e condizioni sociali. Non è facile essere vittime e al tempo stesso essere scaraventati sui media. E allora quelli di Acad sanno che bisogna prendere in mano la faccenda, fornendo supporto legale e anche aiuto economico, ove necessario. E poi ci sono le campagne di sensibilizzazione: la richiesta della sospensione a tempo indeterminato dal servizio, il numero identificativo, il reato di tortura. Dal punto di osservazione dei dieci «punti Acad» sparsi su tutto il territorio emerge anche l’eccessivo ricorso ai Tso, i Trattamenti sanitari obbligatori che vengono comminati con troppa facilità per risolvere questioni delicate o per sbrogliare situazioni complesse.
Andrea Soldi, un’altra delle vittime di abusi di cui si occupa Acad, è morto nell’agosto scorso a Torino dopo un Tso a causa di uno «strangolamento atipico»: sono indagati tre vigili urbani e uno psichiatra. Al numero verde di Acad sono stati denunciati pestaggi ai centri d’accoglienza per migranti e abusi di potere contro persone costrette ai domiciliari, eccessi di repressione in nome del decoro urbano ai margini dei famigerati quartieri della «movida» e misteriosi decessi in carcere.
Acad segue il caso di Nicolò e Tommaso De Michiel. I due fratelli erano poco più che ventenni nel 2009, quando furono vittime a Venezia, la loro città, di un pestaggio poliziesco. Vennero portati in questura, Tommaso in mezzo a più uomini in divisa. Il suo caso è classificato tra i dossier «Sopravvissuti» di Acad, perché il giovane la cavò «solo» con una costola rotta, l’altra incrinata, ematoma ai testicoli, trauma facciale, emorragia ad un occhio, labbra tumefatte, lesioni ai polsi provocate da trascinamento. Fu suo padre a fermare il mucchio selvaggio.
Entrò negli uffici di polizia mostrando il tesserino: era anche lui un agente. In seguito venne sospeso dal servizio per il semplice fatto di aver partecipato ad una iniziativa pubblica per dire che non tutti gli agenti sono come quelli che hanno picchiato i suoi figli. Compare anche lui, proprio un poliziotto, in «Figli come noi» il video del Muro del Canto nel quale alcuni parenti di vittime di abusi in divisa soffiano simbolicamente per spazzare via le ingiustizie.
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