Lo scorso venerdì il processo penale che ha visto coinvolto l’ex generale dei carabinieri Giampaolo Ganzer – insieme ad altri carabinieri del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) – è giunto al termine dopo più di dieci anni: la Corte di Cassazione, riqualificando i traffici di droga contestati come di “lieve entità,” ha fatto scattare la prescrizione.
“È stato un passo importante per l’accertamento della verità,” ha commentato Ganzer, che era presente all’udienza.
Secondo le accuse formulate nei vari gradi di giudizio, il generale sarebbe stato a capo di una specie di “banda di uomini in divisa” che – tra il 1991 e il 1997 – ha portato avanti una “serie indeterminata di illecite importazioni, detenzioni e cessioni di ingenti quantitativi di droga, utilizzando la struttura, i mezzi, le relazioni e l’organizzazione dell’Arma.”
In sostanza, sempre per l’accusa, “all’interno del Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito una associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida.”
Nonostante la gravità dei capi d’imputazione, l’attenzione politica e mediatica sul caso non è mai stata al livello della rilevanza e del profilo degli imputati—soprattutto di quello principale.
Nato in Friuli, Giampaolo Ganzer si iscrive a quindici anni (nel 1964) alla scuola militare della Nunziatella. A vent’anni diventa sottotenente dei carabinieri; e da lì in poi la sua carriera è folgorante, una progressione costante che lo porta ai vertici del corpo.
Alla fine degli anni Settanta – da capitano – è l’uomo di punta del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nelle indagini contro l’eversione nel Nordest d’Italia. Negli anni Ottanta dirige le operazioni che sgominano la cosiddetta “banda dei giostrai,” responsabile di una quarantina di sequestri, e indaga sulla Mala del Brenta, arrestando una prima volta (nel 1984) il boss Felice Maniero.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Ganzer è sempre in Veneto, operando come tenente colonnello nel comando provinciale di Verona – una città che, all’epoca, aveva il non proprio edificante soprannome di “Bangkok d’Italia.” È qui che, stando all’accusa e ai resoconti giornalistici, sarebbe nato il cosiddetto “metodo Ganzer.”
Nel 1991, ad esempio, una serie di grossi sequestri di droghe gli valgono la nomea di “cacciatore di narcos”; contestualmente, ricorda il Corriere del Veneto, sorgono “i primi dubbi su quel modo di operare, ritenuto da qualcuno un po’ troppo spregiudicato.”
Nel 1993 Ganzer è chiamato a Roma, e in breve tempo è nominato a capo del secondo reparto investigativo del Ros, che si occupa appunto di operazioni antidroga. Nell’arco di quasi dieci anni, più precisamente nel 2002, Ganzer scala ulteriormente le gerarchie e diventa il comandante del Ros.
Nel frattempo, verso la fine degli anni Novanta, da Brescia parte – in maniera piuttosto travagliata – l’inchiesta su alcune operazioni del reparto antidroga, che approda infine a Milano dopo numerosi rimpalli di competenza tra varie procure.
Il contesto da cui origina quell’indagine l’ha raccontato Carlo Bonini in un articolopubblicato nel 2003 su Repubblica. Secondo il giornalista, all’inizio degli anni Novanta “l’Arma intravede nelle grandi indagini antidroga una frontiera professionale su cui misurare duttilità e intelligenza dei propri ufficiali e sottufficiali, ma anche un laboratorio in cui sperimentare routine eccentriche rispetto ad antiche e ossificate pratiche da caserma.”
In questo “laboratorio,” prosegue Bonini, la legislazione cerca di adeguarsi a quanto avviene sul campo, “disegnando per [gli] ‘agenti sotto copertura’ una rete di norme ‘scriminanti’ che li sottrae ad alcuni obblighi di legge, tutelandonde l’incolumità e l’anonimato” necessarie per infiltrarsi nelle organizzazioni nazionali e internazionali del narcotraffico.
Tutto ciò, secondo la Procura di Milano che inizia a spiccare i primi avvisi di garanzia, si declina però in un “sistema” poco limpido.
Stando all’atto d’accusa, gli uomini del Ros avrebbero instaurato “contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedita al traffico di stupefacenti senza procedere né alla loro identificazione né alla loro denuncia;” in seguito, sarebbero stati ordinati “quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro.”
Per la Procura, dunque, non saremmo di fronte a “operazioni di infiltrazione,” ma piuttosto all'”istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti” – una pratica che si sarebbe risolta nella creazione di “un traffico di droga” a monte al fine di “reprimerlo” a valle, permettendo così la “positiva conclusione di eclantanti operazioni.”
Il dibattimento approda in aula solamente nel 2005, a ben 7 anni di distanza dall’apertura dell’indagine. Dopo centinaia di udienze, nell’aprile del 2010 la pubblica accusa chiede 27 anni di carcere nei confronti di Giampaolo Ganzer, accusandolo di aver “diretto e organizzato” un’associazione a delinquere dedita al traffico di droga, peculato e falso “al fine di fare una carriera rapida.”
La sentenza di primo grado viene emessa nel luglio dello stesso anno: l’ex comandante dei Ros è condannato a 14 anni di carcere, insieme ad altri carabinieri e trafficanti stranieri. Il Tribunale tuttavia non riconosce il reato associativo, ma contesta “l’illegittimità di singole operazioni e singoli fatti.”
Le motivazioni della sentenza, depositate nel dicembre del 2010, sono particolarmente pesanti. I giudici di primo grado descrivono il generale Ganzer come un uomo dalla “personalità preoccupante,” capace di “commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione.”
Secondo i magistrati giudicanti, Ganzer “non ha minimamente esistato a dar corso” a operazioni “basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo Reparto.”
In più, l’alto ufficiale “non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti, ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di sostanze stupefacenti e ha loro garantito l’assoluta impunità.” Così facendo, prosegue la sentenza, il comandante del Ros “ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato.”
Pur di fronte a dichiarazioni del genere, l’allora comandante generale dei Carabinieri Leonardo Gallitelli conferma la “piena affidabilità” di Ganzer. Lo stesso – e in modobipartisan – fa la politica, che ribadisce il sostegno nei suoi confronti. “Sono un fermo sostenitore della presunzione di innocenza fino a prova contraria,” commenta il ministro dell’Interno Roberto Maroni. “Ganzer ha la fiducia del Comando generale dei carabinieri e quindi anche la mia.”
Nel 2012, Ganzer va in congedo per raggiunti limiti di età. Ripercorrendo la sua carriera inuna (rara) intervista al Corriere della Sera, il generale dichiara che “se tornassi indietro rifarei esattamente lo stesso percorso. Ho scelto ogni passaggio della mia vita professionale e ciò che ho ricevuto in cambio mi ha sempre appagato. Tutto questo è inestimabile.”
L’anno successivo si conclude il processo d’appello, nel quale si verifica una sensibile riduzione di pena: Giampaolo Ganzer è condannato a 4 anni di carcere e al pagamento di una multa di 31mila euro. A tutti gli imputati, inoltre, sono concesse le attenuanti generiche con un ragionamento abbastanza peculiare.
“È certo che i militari del nucleo di Bergamo, col concorso dei loro colleghi della sede centrale […] abbiano ecceduto,” si legge nelle motivazioni di secondo grado. “Ma appare, considerate anche le energie profuse e i pericoli corsi, che abbiano agito, piuttosto che per puro carrierismo o forse anche per un ritorno economico, per una sorta piuttosto di presunzione o superbia di corpo – se così si può dire – di ‘fuoco sacro’, che li ha portati ad agire con spregiudicatezza e indifferenza rispetto ai limiti chiaramente fissati dalle norme di legge.”
(Il generale Giampaolo Ganzer intervistato poco prima del congedo.)
Insomma, continua la sentenza d’appello, “pur nella consapevolezza di forzare la norma e cadere nell’illegalità, con ogni probabilità comunque hanno ritenuto di poter ottenere effetti positivi nella prevenzione dei reati.”
Secondo il giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella, questo passaggio potrebbe essere la “traccia” usata dai giudici di Cassazione per considerare di “lieve entità” i traffici di droga addebitati al generale e agli altri imputati. Così facendo, spiega Ferrarella, c’è stata “una prescrizione più corta del reato, [ossia] 7 anni e mezzo dall’ultima contestazione del 1997.”
Il giudizio, quindi, pone definitivamente la pietra sopra a una vicenda che ha scosso in profondità l’intera Arma dei carabinieri.
Dal canto suo, comunque, Giampaolo Ganzer ha sempre difeso le sue azioni e il suo metodo investigativo.
“Se è esistito un ‘metodo Ganzer’ o un ‘metodo Ros’,” aveva detto nel corso del primo grado, “ebbene io lo rivendico. Perché non ho mai ingannato i miei superiori o i miei ufficiali. Perché non ho violato la legge. […] Perché le attività sotto-copertura hanno fatto da apripista a una legge dello Stato innovativa. Perché se è esistito un “metodo illegale”, allora qualcuno dovrebbe spiegare per quale motivo quel metodo non è stato applicato ad altre attività di indagine.”
“Accetterò quello che verrà come ho sempre fatto,” aveva poi affermato Ganzer in un’intervista. “È da tutta la vita che vivo rispettando le istituzioni, perché io SONO un uomo delle istituzioni.”
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