Giuseppe Conte, potenza del mito tra le ribellioni degli anni settanta

Le poesie di Giuseppe Conte negli Oscar Mondadori. Rileggere insieme le raccolte del poeta ligure, in tutta la loro erranza anarchica e selvaggia, porta a riconsiderare lo statuto della cultura di destra all’interno dell’antagonismo di una fiorente stagione

Nonostante e anzi a dispetto delle innumerevoli ritinteggiature postume e posticce approntate dalla gran parte della pubblicistica italiana (le rumorose ««regine del “tua culpa”»», secondo la felicissima definizione di Fabrizio De André) allo scopo di deformarne e dannarne per sempre la memoria, il decennio degli anni settanta persiste ad apparire come l’ultimo animato da grandi passioni e nei fatti (ossia nei risultati) come quello le cui radici hanno raggiunto nel corso del tempo profondità e consistenze non proprio facilmente estirpabili. La vitalità prodigiosa che si espresse in ogni ambito – dalle nuove forme dell’agire politico al teatro di sperimentazione – non risparmiò la poesia, e qui basterà rammentare i soli titoli dei libri che più segnarono quella stagione di esordi e di battesimi, chiusa simbolicamente tra la rassegna underground del Beat 72 e i tempestosi giorni di Castelporziano, e storicizzata e testimoniata da almeno due antologie, Il pubblico della poesia (1975, a cura di Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli) e Poesia degli anni settanta (1979, a cura di Antonio Porta e con prefazione di Enzo Siciliano): Invettive e licenze (1971) e Morte segreta (1976) di Dario Bellezza, What’s Hecuba to him or be to Hecuba (1976) di Nanni Cagnone, Il disperso (1976) di Maurizio Cucchi, Somiglianze (1976) di Milo De Angelis, Il guanto del sicario (1976) di Tomaso Kemeny, Visas (1976) di Vittorio Reta, Cosa bella cosa (1977) di Angelo Lumelli e Ricreazione (1979, e non dimenticando Area di rigore del 1974) di Valentino Zeichen.
A questi libri, che furono decisivi nel delineare e nel nutrire un clima, va senza alcun dubbio aggiunto L’ultimo aprile bianco di Giuseppe Conte (classe 1945, Porto Maurizio, Imperia), prova certo più significativa del precedente Il processo di comunicazione secondo Sade (1975). La raccolta di versi, datata 1979, poi confluita in L’Oceano e il Ragazzo (1983), ora apre Poesie 1983–2015 (Oscar Mondadori, pp. 385, euro 22, 00), volume accompagnato da una fraterna e non convenzionale introduzione di Giorgio Ficara e da una nota bio-bibliografica a cura di Giulia Ricca. Esso comprende Le stagioni (1988), Dialogo del poeta e del messaggero (1992), Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) e Ferite e rifioriture (2006), oltre a un piccolo gruppo di testi inediti – insomma, quarant’anni di lavoro, di esperienze, di viaggi, di incontri, di visioni, di vagabondaggi, di inaugurali scoperte e di riscoperte, di dediche, di invocazioni e (appunto) di dialoghi.
A riattraversare per intero l’opera di questo poeta antimoderno e antinovecentesco, libro dopo libro, poesia dopo poesia, si comprendono meglio le ragioni del fascino che essa ha esercitato e continua a esercitare su molti lettori e in specie su alcuni (non pochi) poeti, di quasi coeve o di più fresche generazioni. La forza oggettiva di questa poesia, in primo luogo, risiede nell’essere fortemente e apertamente ad alta temperatura ideologica in un’epoca nella quale si preferisce fingere, in maniera spesso stolta o vacua (e comunque, in entrambi i casi, ipocrita), di non esserlo. Che non vi siano più battaglie da combattere, idee forti per cui valga la pena di schierarsi e barricate da difendere, ecco, la poesia di Conte lo nega in modo deciso, addirittura furente e infuocato. Lo nega, per intanto, mediante un indiscutibile movimento di restaurazione comunicativa, mostrandosi i suoi miti e le sue divinità come chiamati in causa alla lettera, scrostati come sono di mediazioni e soprattutto di sostanza simbolica. Essi, gli dèi di Conte, non sono metafore quanto semmai metonimie della vita stessa, una vita che si vuole e si vede in rivolta, selvaggia, libera, avventurosa, nomade, anarchica, escrescenza luminosa e numinosa della natura e delle forze paniche.
Conte accoglie a braccia aperte quella che chiama la ««potenza del mito»», e che siano miti etruschi, aztechi, greci, celtici o pellerossa poco importa, in una sfrenata sarabanda del più estremo sincretismo. Da qui, come egli scrive nella nota all’edizione del 2002 di L’Oceano e il Ragazzo, la poesia come ««energia spirituale»», come ««incantamento»». ««Mi ribellavo»», ricorda poi, ««a un’Europa isterilita, sbiadita, avvelenata, a una cultura analitica (sociologismo, freudismo, strutturalismo, semiotica) che strozzava ogni slancio creativo e rendeva impossibili nuovi scenari di canto». Ma, visto che la poetica dello scrittore ligure coincide coraggiosamente con la sua ideologia, non è illecito chiedersi se essa sia di «destra» o di «sinistra». Mentre scrivo questo articolo mi soccorre un’intervista rilasciata da Conte a Paolo Di Stefano («La Lettura» del Corriere della sera), nella quale egli afferma che forse il suo amore ««per la tradizione e per il mito potrebbe farmi sembrare di destra, ma io ami i miti irlandesi come quelli degli indiani d’America. Non credo nei valori della destra tradizione, Dio Patria e Famiglia»». Immagino che Conte pensi, quando la rifiuta, all’Italietta piccolo-borghese delle vecchie zie o di Giovannino Guareschi, un mondo che non esiste più, un’archeologia sentimentale e trascurabile. E difatti la genealogia da cui origina la poesia di Conte è ben altra. Ci sono Whitman e D. H. Lawrence (««Lo sai che in odio a tutti i canoni / del Novecento, a tutti i suoi must / darei tutto Joyce, Kafka, Proust / per una pagina di Lawrence»»). Ci sono Spengler, Jünger, Eliade, Guénon, Evola, Hillman. E c’è Alce Nero parla che, pubblicato negli anni settanta da Rusconi, fu un must della cultura di destra, contribuendo a nutrirne ulteriormente e non senza ragioni il già acceso antiamericanismo. D’altronde, nell’intervista, Conte tocca il punto cruciale: ««I miei valori sono il senso del Sacro, la Madre Terra e la Persona»». Nell’opera di questo poeta di pagana irruenza una maiuscola tira l’altra – ed è su tale dato che occorre fermarsi a riflettere per cercare di trovare una risposta alla domanda e innanzitutto per meglio capire le ragioni dell’indubbio fascino di cui prima si diceva. L’antagonismo di Giuseppe Conte, pare di intuire, abita una precisa e ben nota trincea.

You may also like

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password