Gilles Deleuze e la libertà sovrana di fare filosofia

Saggi. «L’esausto» di Gilles Deleuze per Nottempo. A venti anni dalla sua morte pubblicati, con i contributi di Ginevra Bompiani e Giorgio Agamben, i testi dedicati a Samuel Beckett

«Troppo da dire, e oggi non ne ho la forza. Troppo da dire su quello che è suc­cesso, su quello che è suc­cesso pro­prio a me, con la morte di Gil­les Deleuze ». A rac­con­tarlo, nelle pagine di Libé­ra­tion, è stato Jac­ques Der­rida il 7 novem­bre del 1995. Tre giorni prima e all’età di settant’anni scom­pa­riva Gil­les Deleuze, suo amico a cui rico­no­sceva «il mar­chio di un grande filo­sofo, di un grande pro­fes­sore». Nei ricordi che Der­rida ha dedi­cato a Roland Bar­thes, Edmond Jabès, Sarah Kof­man, Mau­rice Blan­chot e molti altri, rac­colti poi nel 2003 in un volume dal titolo Ogni volta unica, la fine del mondo, c’è il segno di una gene­ra­zione che fini­sce. È tut­ta­via Deleuze più di altri, pro­se­gue Der­rida, il «pen­sa­tore dell’avvenimento». Da quella dif­fe­renza sem­pre nomade, anar­chica e in eccesso, la fol­go­ra­zione pro­dotta dal nome di Deleuze apriva la pos­si­bi­lità di un nuovo pen­siero. Di que­sto era con­vinto Fou­cault che nel 1970, ragio­nando intorno a due dei testi più impor­tanti di Deleuze, Dif­fe­renza e ripe­ti­zione(1968) e Logica del senso (1969), com­po­neva il Thea­trum phi­lo­sphi­cum di un grande e paziente «genea­lo­gi­sta nietzschiano».

È piut­to­sto chiaro che quanto si augu­rava Fou­cault sul secolo deleu­ziano non sia imme­dia­ta­mente acca­duto, per le refrat­ta­rietà e dif­fi­denze spesso mostrate dalla filo­so­fia acca­de­mica, in par­ti­co­lare ita­liana, che invece di appro­fit­tare di quella «per­ver­sione del buon senso» inau­gu­rata da Deleuze ha pre­fe­rito in molti casi ado­pe­rarne la lezione come un qua­dro eccen­trico e dif­fi­cil­mente siste­ma­bile. Ciò detto, è altret­tanto vero che oggi, a venti anni dalla sua morte, la let­tura e la rilet­tura di ciò che hanno signi­fi­cato, poli­ti­ca­mente e filo­so­fi­ca­mente, opere come L’anti-Edipo (1972), Mille piani (1980) nel soda­li­zio con Félix Guat­tari, i con­tri­buti dis­se­mi­nati e inag­gi­ra­bili al pen­siero di Spi­noza, Leib­niz, Kant, Nie­tzsche, Freud, Berg­son, tra gli altri, cor­ri­spon­dono a una pra­tica da col­ti­vare ancora con con­vin­zione e gene­ro­sità. E non solo per quel che ebbe a dire di se stesso Gil­les Deleuze, rispon­dendo a Fou­cault, defi­nen­dosi il più inno­cente e il meno col­pe­vole per il fatto di fare filo­so­fia, ma per­ché lo spa­zio fre­quen­tato è stato della mas­sima ampiezza. Dalla scienza al cinema e la let­te­ra­tura, dalla psi­coa­na­lisi all’arte, la dirom­penza di Deleuze, sia insieme che senza Guat­tari, ha con­dotto a un ripen­sa­mento e a un’invenzione di alcune cate­go­rie cri­ti­che, un taglio nella sto­ria delle idee.

La mol­te­pli­cità sov­ver­siva negli anni feroci e vitali dei movi­menti, lo schizo e la mac­china desi­de­rante, e ancora il dive­nire stesso di «corpi senza organi», si pun­tel­lano di deter­ri­to­ria­liz­za­zioni e para­dossi — come la serie dei famosi tren­ta­quat­tro con­te­nuti in Logica del senso — guar­dano allo scar­di­na­mento stesso della dia­let­tica per assu­mere nuove cop­pie con­cet­tuali, radi­cali forme di rove­scia­mento simul­ta­neo del senso comune. Che nel 1991, sem­pre insieme all’amico Guat­tari, Deleuze scriva Che cos’è la filo­so­fia? non è un caso. La filo­so­fia infatti, come del resto si evince dal pro­getto poco pre­ce­dente dell’Abecedario, è «l’arte di for­mare, di inven­tare, di fab­bri­care con­cetti. Ma non bastava che la rispo­sta si limi­tasse ad acco­gliere la domanda; era neces­sa­rio anche che essa sta­bi­lisse un’ora, un’occasione, le cir­co­stanze, i pae­saggi e i per­so­naggi, le con­di­zioni e le inco­gnite della que­stione». Sem­bra forse un po’ stra­va­gante porsi un que­sito simile dopo anni di pra­tica filo­so­fica ma, come gli stessi autori sosten­gono nell’introduzione al volume, è una domanda che insieme a molte altre può essere pen­sata solo quando la vec­chiaia dona non un’eterna gio­vi­nezza ma al con­tra­rio «una libertà sovrana», quando cioè si mani­fe­sta lo stato di gra­zia tra la vita e la morte.

Forse è anche que­sto il con­cetto di «penul­timo» di cui parla Gine­vra Bom­piani nella splen­dida intro­du­zione a un testo di Deleuze da lei stessa tra­dotto e appena pub­bli­cato per Not­te­tempo. Il titolo è elo­quente: L’Épuisé (Minuit, 1992), ovvero L’esausto (pp. 98, euro 7) in cui l’occasione di accom­pa­gnare quat­tro piè­ces scritte e dirette da Samuel Bec­kett per la tele­vi­sione tra il 1975 e il 1982, offre una rifles­sione più ampia sull’esaurimento del possibile.

Le posture bec­ket­tiane – riprese anche nella post­fa­zione fir­mata da Gior­gio Agam­ben — sono infatti i modi in cui tempo e spa­zio si creano, si con­trag­gono e si ero­dono. Così «Lo stanco non può più rea­liz­zare, ma l’esausto non può più pos­si­bi­liz­zare». La figura dell’esausto è una ulte­riore trama, affet­tiva e di signi­fi­cati, con­se­gnata ai per­so­naggi con­cet­tuali di Bec­kett, gli stessi a cui si attri­bui­sce già ne L’anti-Edipo un’andatura simile a una minu­ziosa mac­china, quando peri­me­trano e disgiun­gono gli avve­ni­menti che capi­tano loro: «tutto si divide, ma in se stesso».

Il buco che inten­deva ope­rare Bec­kett nel lin­guag­gio, sia da scrit­tore che da regi­sta, è qual­cosa che Deleuze tiene pre­sente per scri­vere di Quad, Ghost Trio, …but the clouds…Night and dreams. Tenore e atten­zione con­se­gnati anche alla rac­colta di scritti Cri­tica e cli­nica (1993) sulla let­te­ra­tura e la scrit­tura in cui Bec­kett detiene ancora un posto pri­vi­le­giato. Eppure è nell’esausto, in que­sta forma in cui ad esau­rirsi non sono solo le forze ma il pos­si­bile, che si attra­versa la penul­tima sov­ver­sione, quella per cui le idee, le cose, le imma­gini, non smet­tono di este­nuarsi. Per arri­vare ai corpi, alla chiu­sura di ogni imma­gi­na­zione del pos­si­bile che è la pro­pria morte. Si è stati stan­chi di qual­cosa, oggi invece, direbbe Deleuze, è il pre­sente a rac­con­tarci che si è esau­sti di niente. Come durante una notte insonne, quando «le due mani e la testa fanno un muc­chietto» per dire che forse non va bene eppure si resta così, insop­por­ta­bil­mente seduti «a spiare il colpo che ci rad­driz­zerà per l’ultima volta e ci sten­derà per sempre».

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