Con Zangheri, e con altri dirigenti del Partito comunista italiano, era possibile litigare, discutere, accapigliarsi, perché erano portatori di un pensiero
La morte di Renato Zangheri, intellettuale, storico ed economista che fu anche sindaco della città di Bologna, mi rattrista per ovvie ragioni umane, ma anche perché sono costretto a paragonare l’epoca presente con quella in cui io e tanti altri litigammo con Zangheri.
Litigammo per tutti gli anni Settanta, a Bologna come altrove, ma forse a Bologna più spesso, dato che la città in quegli anni sembrava un teatro nel quale confrontare idee. Con Zangheri, e con altri dirigenti del Partito comunista italiano, era possibile litigare, discutere, accapigliarsi, perché erano portatori di un pensiero. Nell’epoca presente il confronto con i politici di governo è reso impossibile dal fatto che essi non sono portatori di alcun pensiero. La politica è oggi mera applicazione di regole matematiche scritte dal sistema finanziario.
Se penso a colui che fu sindaco di Bologna nella seconda parte degli anni Settanta e si trovò quindi a fronteggiare la rivolta degli studenti e dei giovani proletari, il primo ricordo che mi viene in mente non è un bel ricordo.
Nel marzo del 1977, rivolgendosi alle forze di polizia mandate dal ministro degli interni Francesco Cossiga, Zangheri disse: «Siete in guerra e non si critica chi è in guerra».
Nei giorni precedenti le forze dell’ordine avevano ucciso uno studente di medicina di nome Francesco Lorusso sparandogli alle spalle, avevano occupato la zona universitaria con i mezzi corazzati, avevano arrestato trecento persone e avevano chiuso una radio libera distruggendone i locali.
Non c’era niente da criticare? Forse sì, ma quella era la politica del compromesso storico cui Zangheri si piegò.
Lo scontro tra il movimento autonomo e il Pci raggiunse il suo culmine nel 1977, e vide Zangheri assumere un ruolo centrale nella polemica, forse suo malgrado. In quello scontro si scontravano due visioni del futuro, anche se ne eravamo solo confusamente consapevoli.
Non credo che abbia senso chiedersi: chi aveva ragione nel 1977? Il partito comunista o il movimento autonomo? Non ha senso perché la storia non funziona in quella maniera. Mentre cerchi una soluzione per il problema, il problema è cambiato, e gli attori sono scomparsi e quelli nuovi hanno altro cui pensare.
Eppure il senso generale della polemica di quegli anni oggi si potrebbe riassumere cosi: il movimento autonomo pensava che lo scatenamento delle forze sociali è un fatto positivo, perché innesca una dinamica liberatoria della cultura, della tecnologia, della sperimentazione. Il partito comunista pensava che lo scatenamento è pericoloso e va represso perché la società va governata dalla razionalità della politica.
Credo che il devastante trionfo del neoliberismo, negli anni immediatamente successivi, nasca proprio dal fatto che lo scatenamento era inevitabile e pieno di potenzialità positive, ma fummo incapaci di fare del movimento operaio l’interprete politico consapevole dello scatenamento delle forze sociali desideranti.
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