L’ultima struttura della Turco-Napolitano: un centinaio di «clandestini» con pezzi di vita che aspettano solo di essere raccontate
Un cortile ampio, il selciato rovente, casette sparse, circondate da sbarre altissime. Fuori dalle mura di questa fortezza, oltre al filo spinato, svettano i palazzi di Torino che si affacciano come se niente fosse su un’architettura angosciante. Dentro alle gabbie ci sono i migranti, clandestini, in attesa di lunga, talvolta infinita, identificazione in vista di rimpatrio o espulsione. Si avvicinano alle reti metalliche: raccontano pezzi di vita, protestano per le condizioni insostenibili, sudano; alcuni sono in sciopero della fame. Poi, rimangono nelle gabbie — non sono esemplari, sono esseri umani — mentre ce ne andiamo via.
Questo limbo di cemento sospeso nella metropoli sabauda è il Cie di corso Brunelleschi, anche se in realtà l’ingresso è in via S. Maria Mazzarello. Venerdì il termometro ha toccato i 38,5 gradi, temperatura record. Grazie alla campagna LasciateCIEntrare siamo riusciti ad accedere per la prima volta. Non è stato facile, da tempo il movimento lo chiedeva. La campagna è nata nel 2011 per contrastare una circolare del Viminale che vietava l’accesso agli organi di stampa nei Cie e nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). Appellandosi al diritto-dovere di esercitare l’articolo 21 della Costituzione (libertà di stampa), ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte per la chiusura dei Cie, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Un risultato ancora lontano.
Sono 81 gli ospiti della struttura di Torino, tutti uomini. I paesi di origine sono Marocco, Tunisia, Nigeria e Senegal, ma anche Albania, Georgia, Algeria e Ghana. Vivono in piccoli edifici, per nulla confortevoli; dalle porte si intravvedono camere spoglie, letti sgangherati, televisioni appese al soffitto, muri scrostati dentro e incendiati fuori, segno delle ultime rivolte.
Il centro, un tempo Cpt (Centro di permanenza temporanea), fu inaugurato nel 1999 nel quartiere di Pozzo Strada, zona ovest di Torino, in un’area della storica caserma Cavour, tra via Monginevro e corso Brunelleschi. È stato il primo in Italia per effetto della legge Turco-Napolitano. Si diceva dovesse essere una struttura provvisoria, in attesa di altre soluzioni. Nel 2010 è stato, invece, ampliato con 11 milioni di euro. Negli ultimi mesi, dopo 14 anni di gestione da parte della Croce Rossa, è stato assegnato al raggruppamento temporaneo di imprese formato dalla francese Gepsa (controllata dalla multinazionale Gdf Suez), leader nella logistica di penitenziari e centri di detenzione, e all’associazione culturale Acuarinto di Agrigento, unici concorrenti ad aver partecipato alla gara d’appalto, nonché gli stessi gestori del Cie di Ponte Galeria a Roma.
«L’attuale capienza» spiega il direttore del centro, Emilio Agnello, membro di Acuarinto, «è di 90 persone, nel bando erano 180, ma alcune strutture sono state danneggiate da precedenti rivolte. Tre sono i mediatori: un palestinese, una camerunense e una nigeriana. Siamo gli unici senza divisa». Il resto degli operatori sono agenti di polizia e militari dell’esercito, un’interforze. «Su 81 trattenuti il 35–40% arriva direttamente dal carcere, l’80% è stato in passato detenuto, il reato più comune è spaccio di stupefacenti; 17 hanno richiesto asilo ma i casi di accoglimento sono molto rari», spiega un ispettore di polizia, che opera da oltre dieci anni nel Cie di Torino. Accanto a loro, in una delle stanze per le convalide del «trattenimento dei cittadini stranieri», siede la dirigente della prefettura Valeria Sabatino che sottolinea: «Qui, sono vietate fotografie e riprese». Oltre il 70% dei migranti viene rimpatriato. Gli altri, una volta ricostruita l’identità all’interno del Cie, ricevono il decreto prefettizio di espulsione: viene intimato di abbandonare il territorio italiano entro sette giorni.
Superati gli uffici, si arriva nel cuore della struttura, in uno dei buchi neri del XXI secolo, dove le persone rischiano di fermarsi fino a 90 giorni. Dietro alle reti, si intravvedono le sagome dei reclusi. Alcuni si riparano nei pochi spazi d’ombra. Altri ci vengono incontro. Ndoje è alto, indossa la maglia di una tuta e gronda di sudore. È senegalese e padre di tre figli. Scandisce le parole, conosce bene l’italiano: «Puoi aver commesso reati, ma dopo aver scontato una pena devi poterti reinserire nella società, non finire in un Cie. Noi, ricordatevi, prima di tutto e prima di essere clandestini, siamo esseri umani. Non meritiamo un trattamento simile. La storia un giorno condannerà i responsabili». Alle sue spalle si fa largo Chkara, 27 anni, origine maghrebina. Ha vissuto a Como, dove si è fatto un po’ di carcere e ha incominciato a seguire un percorso terapeutico con il Sert locale. Mi allunga un foglio tra le sbarre: «Leggi! È il report di un educatore dell’Asl, spiega che una comunità di recupero, La Centralina di Morbegno (Sondrio), è disposta a prendermi in affidamento. Dice che non sono cattivo né pericoloso. Io sogno un’altra vita».
Le voci si accavallano, si sente gridare «Charlie», come gli americani chiamavano i vietcong. Così i migranti reclamano l’attenzione dei militari che presidiano il campo. Qualcuno invoca soccorsi, si sente male. In 6–7 stanno facendo lo sciopero della fame per protesta. Le camere sono bollenti, gli operatori sostengono siano climatizzate. «Non è vero e, quando c’è, il condizionatore non funziona. Si stava meglio in carcere», racconta Ahmed, marocchino, da 14 anni in Italia, di cui 5 e mezzo passati in una casa circondariale, dopo un arresto per spaccio. È stato portato nel Cie, mesi dopo aver scontato la pena, perché senza documenti: «Nella vita si fanno sbagli, ma questo non giustifica un trattamento disumano. Ho deciso di fare lo sciopero della fame». Per chi sceglie questa forma di protesta nonviolenta, l’obiettivo è raggiungere «condizioni al limite» per essere rilasciati se diventano incompatibili con la reclusione. Yassine, marocchino, ha il corpo tagliuzzato, parla della sua compagna italiana: «È incinta e vorrei sposarla», racconta mentre riceve un po’ di caffé da un georgiano che lamenta problemi di cuore.
Maxwell ha 35 anni, proviene dal Ghana, faceva il muratore è nel Cie da 17 giorni, ha problemi di tossicodipendenza: «Ci danno il metadone, ma non vedo l’ora di rivedere la luce». Jabali, tunisino 21 anni, ha il volto di un ragazzino e non vuole tornare in Nord Africa: «Sono arrivato minorenne, nel 2007, e a Udine ho frequentato la scuola, incominciando a vivere come un qualsiasi coetaneo italiano. Sono qui da 50 giorni e mi vogliono spedire in Tunisia, ma non voglio. Che ci vado a fare lì? Ormai la mia vita è in Italia». Aidarai Abedì la pensa diversamente: «Io, invece, voglio tornare in Albania. Mia madre sta male, voglio andarmene da qui, non mi interessa far casino. Voglio solo riabbracciare la mia famiglia».
Nella zona detta dell’Ospedaletto, utilizzata per «l’isolamento medico non disciplinare» precisa la dirigente della prefettura, ci sono due giovani, un senegalese e un nigeriano del Biafra. Gli operatori dicono che sono stati collocati lì perché omosessuali, «per proteggerli». «Io non l’ho scelto – spiega il secondo – qui dormiamo su letti di ferro, senza materassi. Vogliono rispedirmi in Nigeria, ma lì mi ucciderebbero. Ho chiesto asilo politico».
Le altre stanze dell’Ospedaletto sono danneggiate, i muri sono pieni di scritte: «Georgia = Mafia», «Dio è grande», «Fuck» declinato in vari modi. E soprattutto «Basta» in tutte le lingue.
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