L’accentramento dei poteri decisionali in mano ad organismi democraticamente irresponsabili ed un’asimmetrica divisione continentale del lavoro hanno proceduto fin qui di pari passo nella costruzione dell’Europa gerarchica
Il capolavoro retorico delle classi dirigenti tradizionali, dall’inizio della crisi, è stato quello di trasfigurare nel senso comune una crisi del capitalismo finanziario in una crisi del debito pubblico. Ne è derivato che non sono tanto le élites a dover rispondere della loro dissennata gestione del potere, ma sono i popoli a essere messi sul banco degli imputati per aver vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”. Su questa narrazione fittizia sono state costruite politiche reali, la cui natura è stata ben nascosta dagli apparati egemonici del capitalismo.
Questi apparati hanno fatto passare come necessità oggettive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redistributivo verso l’alto, dall’altro hanno disegnato un nuovo ordine continentale asimmetrico a vantaggio dei centri forti dell’economia europea.
All’interno dei singoli paesi si è determinato un ingente spostamento di risorse dal salario – reale e differito – al capitale, e un’ulteriore concentrazione del potere nelle mani delle élites oligarchiche a scapito del controllo democratico. Su scala continentale si è giunti al contempo a una configurazione gerarchica dell’Unione europea, con una divisione del lavoro sostanzialmente duale, sul modello di quella che ha condotto all’esplosione, nel nostro Paese, della questione meridionale. Le forze popolari e progressiste hanno il compito di smascherare l’artificio retorico attorno al quale le classi dominanti hanno costruito la narrazione della crisi: un’operazione indispensabile per il rilancio di un disegno contro-egemonico su scala continentale.
È stata la haute finance a trarre beneficio dalle dinamiche della crisi, lucrando sulla “scarsità” di risorse da essa stessa prodotta con la complicità dei governi. Nel caso della Grecia i cosiddetti “salvataggi” non sono stati altro in realtà che uno strumento per garantire la rendita finanziaria, alimentando il potere di ricatto delle élites del denaro. Le banche europee, a cominciare da quelle tedesche, hanno sin qui prestato denaro ad Atene, che, privata della libertà di indirizzare questi fondi verso reali politiche espansive, si è trovata costretta ad ulteriormente indebitarsi. I provvedimenti imposti dalla Trojka hanno quindi realizzato, mediante una partita di giro, un rafforzamento delle banche private, favorendo al contempo un colossale spostamento di risorse dal welfare alla rendita finanziaria.
Le condizioni imposte per il “salvataggio” della Grecia hanno riproposto uno schema universalizzato, dove al primo posto, immancabile, si è collocata la raccomandazione di varare un ampio piano di privatizzazioni. Queste ultime hanno portato con sé due conseguenze. Da un lato, la svendita al capitale metropolitano di asset pregiati delle periferie sconvolte dalla crisi (è di questi giorni la notizia che il gruppo tedesco Fraport si è accaparrato la gestione quarantennale di 14 aeroporti greci). Dall’altro, specie in realtà in cui il capitalismo nazionale dimostra tendenze secolari verso la trasformazione in rendita, una deindustrializzazione funzionale alla riconfigurazione in senso gerarchico della divisione continentale del lavoro.
Alle privatizzazioni hanno poi fatto seguito un po’ ovunque le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver determinato una ripresa dell’occupazione, attraverso di esse si è stabilizzato un enorme esercito industriale di riserva, tra le file del quale pescare manodopera dequalificata e a basso costo per la produzione di semi-lavorati, destinati ad essere assemblati dai grandi gruppi industriali metropolitani. Con l’artificio retorico dell’invecchiamento della popolazione, infine, i governi nazionali sono stati costretti a varare “riforme delle pensioni” che hanno prolungato nel tempo la condizione di sfruttamento della forza-lavoro, garantendo allo stesso tempo lauti dividendi ai grandi gruppi assicurativi privati.
Senza una netta inversione di tendenza, questa serie di misure è destinata ad avere un impatto di lunghissimo periodo e a trasformare in profondità lo spazio economico continentale. La crisi modella la costruzione dell’Europa gerarchica, mentre lo strumento del memorandum, moderna Magna Charta, la “costituzionalizza”.
Dopo la Grecia è lecito supporre l’aggressione del grande capitale europeo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in questa direzione si hanno già. Si pensi alla crescita dei colossi finanziari tedeschi, Allianz e Deutsche Bank, i quali stanno acquisendo anche in paesi come il nostro quote crescenti di mercato, al punto che Allianz è il secondo operatore in Italia nel campo delle assicurazioni. Anche per quanto riguarda il nostro mercato finanziario si pone quindi un problema di subalternità al gigante tedesco. Ma l’aspetto determinante per il dispiegarsi dell’egemonia tedesca è la deindustrializzazione del sud Europa, una delle emergenze che andrebbero affrontate nella prospettiva di un’alternativa.
Chi pensa che il futuro della Grecia o dell’Italia possa essere trainato dall’agricoltura o dal turismo, se non è in mala fede, rischia comunque di prendere un abbaglio. Non farebbe male ogni tanto rispolverare il pensiero dei nostri grandi statisti del passato. Riprendendo una valutazione di Cavour, all’inizio del Novecento Francesco Saverio Nitti affermava che «l’industria dei forestieri, l’industria degli alberghi sono grandi industrie: ma non possono considerarsi come la base del reddito nazionale. Inoltre un paese che vive dei forestieri tende in certa guisa ad abbassare il suo carattere: tende à un esprit d’astuce et de servilisme funeste au caractère national. L’industria dei forestieri invece è benefica invece in un paese già industriale che può trattare i forestieri su le pied d’une parfaite égalité».
Rispetto alla situazione in atto un’inversione di tendenza coinciderà solo con un ribaltamento degli attuali equilibri. Il nodo di fondo da affrontare è sempre lo stesso, il rapporto fra Stato e mercato: il primo deve tornare come in passato ad avere l’ultima parola sulla decisione su cosa, come e per chi produrre, cominciando con il recuperare quella che Beveridge avrebbe chiamato una “signoria sul denaro”, ossia una sottomissione della finanza al controllo democratico. Soltanto così sarà possibile perseguire politiche espansive e rilanciare la produzione industriale e terziaria in tutte le aree d’Europa.
L’accentramento dei poteri decisionali in mano ad organismi democraticamente irresponsabili ed un’asimmetrica divisione continentale del lavoro hanno proceduto fin qui di pari passo nella costruzione dell’Europa gerarchica. Solo un processo coordinato di ricostruzione dell’apparato produttivo della periferia continentale potrà innescare un processo opposto e virtuoso di riconfigurazione democratica dell’Europa.
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