Nel 2004 suscitò lo sdegno di professori, associazioni, giornalisti e commentatori, stavolta la norma pro tortura è stata a mala pena notata dai cronisti parlamentari
Un chiaro segno di declino della cultura democratica è ben visibile nella diversa reazione suscitata a distanza di poco tempo (11 anni) da una proposta più che indecente, ossia la definizione normativa della tortura come esito di «violenze o minacce reiterate». Nel 2004 la locuzione — proposta dalla Lega Nord come emendamento — suscitò tanto scandalo da affossare l’approvazione della legge: i leghisti non solo rompevano l’asse bipartisan che aveva condotto alla stesura di un testo comune, ma in pratica proponevano di legittimare la tortura, purché compiuta con azione unica, non ripetuta.
Stavolta sono stati i senatori di maggioranza Buemi e D’Ascola a proporre un emendamento per stabilire che il crimine di tortura si configura solo in caso di «reiterate violenze o minacce gravi» e la commissione Giustizia del Senato ha incredibilmente detto sì.
Se nel 2004 il caso arrivò sulle prime pagine dei quotidiani e suscitò lo sdegno di professori, associazioni, giornalisti e commentatori, stavolta la norma pro tortura è stata a mala pena notata dai cronisti parlamentari degli altri quotidiani. Assuefazione? Rassegnazione? Il testo uscito dal Senato può essere definito certamente una legge sulla tortura, ma non una legge contro la tortura, e ha l’unica funzione di inviare un messaggio di vicinanza e complicità al “partito della polizia”, che si è battuto contro la legge e per il suo svuotamento dall’interno, con argomenti pretestuosi e in qualche caso anche pericolosi (come l’assurda tesi che il divieto di tortura “legherebbe le mani” agli agenti).
Il testo approvato il 9 aprile alla Camera era già pessimo e andava rifiutato; è stato invece considerato una base di discussione per ulteriori correzioni, inevitabilmente al ribasso, visto lo strapotere del “partito della polizia”, temuto dalla politica e vezzeggiato dai maggiori media.
Si conferma anche stavolta il disagio delle nostre forze dell’ordine rispetto agli standard normativi internazionali, ma il parlamento, assecondando posizioni così arretrate, tradisce il suo compito di indirizzo e controllo e acuisce il discredito che grava sulle nostre istituzioni, colpite appena tre mesi fa dal durissimo giudizio della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz. Questo testo di legge dev’essere rifiutato con forza, perché è un’offesa ai cittadini che hanno subito gli abusi e vorrebbero sentirsi tutelati invece d’essere prima ignorati e poi sbeffeggiati; perché è una norma paradossale e antidemocratica, che finisce per legittimare certe forme di tortura; perché allontana le forze dell’ordine dalla cultura democratica; perché comporta — di fatto — una secessione dell’Italia dalla Convenzione europea sui diritti fondamentali e dalla Corte di Strasburgo, che ne tutela l’applicazione.
Meglio nessuna legge che una legge così: il parlamento si assuma la responsabilità di riconoscere di non essere in grado di approvare una seria normativa sulla tortura. I singoli parlamentari coscienti di questa situazione — e non sono pochi — escano dal silenzio e rompano questo scellerato patto con “il partito della polizia”; un patto che nuoce alle stesse forze dell’ordine, alla loro credibilità agli occhi dei cittadini e delle istituzioni internazionali.
Ci sarà da lottare, da ricostruire una cultura dei diritti, ma non esistono scorciatoie, a meno di rassegnarsi all’idea che l’Italia dev’essere un Paese a statuto speciale, sottomesso a un’imponderabile e poco democratica “ragion di Stato”.
*Comitato Verità e Giustizia per Genova
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