il vero regista della resa dei conti con la Grecia non è stato Schauble ma Draghi
Entrati nella sala della riunione in grisaglie i negoziatori del 12 luglio ne sono usciti col volto di Dracula. Un volto che da oggi ossessionerà non solo i cittadini europei, ma anche tutti i loro governanti: perché non aver difeso la Grecia di Tsipras, oggi, li espone, domani, alla prospettiva di trattamento analogo. Non potranno più permettersi di proporre un cambio di rotta, ma dovranno anche sottostare alle pretese ogni giorno più esose di chi guida la danza dell’austerity. Col 2016 entra in vigore il fiscal compact, l’obbligo di dare inizio al rientro dal proprio debito.
Nessuno ne parlava più; ma ora quel patto potrà essere richiamato in servizio e scombussolare i bilanci di tutti gli Stati: sia di quelli già a rischio (Italia, Spagna e Portogallo); ma anche quelli di Francia, Olanda o Finlandia, che non stanno molto meglio. I birilli del bowling rischiano di cadere uno dopo l’altro, e poi di coinvolgere, prima di quanto si possa pensare, anche la Germania.
Attaccare oggi Tsipras dopo averlo esaltato fino a ieri è però un po’ gaglioffo; specie se a farlo sono dei politici italiani. Perché da qui è difficile avere un quadro esauriente della situazione. Perché, dopo averlo a lungo esaltato, bisognerebbe ora mettersi “nei panni” di Tsipras, cioè di fronte alle alternative tra cui ha dovuto scegliere. Ma soprattutto perché i nostri panni sono quelli di chi ha dissipato le forze della sinistra più forte d’Europa per sostituirla con l’eterna riproposizione della propria inconsistenza. Ma non voltare le spalle a Tsipras in questo difficile passaggio significa appiattirsi sulle sue posizioni. Meglio cercare di trarne qualche insegnamento.
Innanzitutto l’inconsistenza intellettuale e la malafede dei negoziatori sia dell’eurogruppo che del Consiglio, già evidenziate da Varoufakis, coinvolgono tutto l’establishment europeo di cui sono espressione. Una classe dirigente che manda a fondo la Grecia pensando di ricavare 50 miliardi da asset che possono essere svenduti al massimo per 7 (la favola delle privatizzazioni per pagare i debiti…), di normare l’orario delle farmacie o di riscrivere la procedura civile in una settimana, non ha futuro. Quanto ai conti, persino il Fmi giudica quel nuovo memorandum irrealizzabile. Il che lascia aperta la partita. Ma si tratta poi di quegli stessi governi che non vogliono farsi carico di alcune decine di migliaia di profughi… Un’alternativa sociale politica e culturale deve tenerne conto: l’Unione europea potrebbe dissolversi in pochi anni.
Poi si è resa evidente l’inconsistenza dell’opzione di un’uscita dall’euro. Le scelte di Tsipras, ma anche le critiche di Varoufakis, hanno messo in luce sia le difficoltà tecniche, mai prese in considerazione, che la drammaticità, per tutta la popolazione, di quell’opzione. Ancora più insensata e grottesca appare quindi la proposta di un referendum sull’uscita dall’euro: tra il suo lancio e la sua eventuale realizzazione le banche verrebbero svuotate, paralizzando per mesi l’intero paese. Eppure la politica di oggi si nutre in buona parte di queste due cose: o «ce lo chiede l’Europa», o la promessa di ritornare a «come era prima» dell’euro.
Terzo: l’esito pesantissimo del negoziato è dovuto anche alla mancanza di un «piano B» che contemplasse, in qualche forma, l’introduzione di una moneta parallela, senza con questo abbandonare l’euro. Su questo punto ha ragione Varoufakis (che d’altronde l’aveva prospettata in alcuni suoi scritti). Ma neanche questa è cosa realizzabile in una settimana: avrebbe dovuto essere predisposta fin dalla vittoria elettorale, e studiata prima ancora. Syriza non ha avuto tempo né modo per farlo. Ma una discussione sulle diverse versioni di questa proposta, a partire da quella dei certificati di credito fiscale proposti da Grazzini e Gallino, e sul modo di usarli (perché anche in queste proposte può nascondersi una trappola) andrebbe sviluppata con maggiore impegno. Perché è parte integrante di un programma di alternativa di governo, ma potrebbe anche rivelarsi strumento strategico per contrastare lo strapotere dell’alta finanza.
Quarto: il vero regista della resa dei conti con la Grecia non è stato Schauble ma Draghi (ce lo confermano il Fmi da un lato, Galbraith dall’altro). Sua è la lettera scritta con Trichet per varare il governo Monti, le cui misure sono ricalcate dai memoranda della Trojka e oggi sono imposte a Tsipras in forma aggravata; sua è l’esclusione della Grecia dal quantitative easing e dal sostegno alle banche greche; suo il blocco dell’Ela per costringerle a chiudere, mettendo Tsipras spalle al muro. È il comportamento di chi tiene ferma la vittima per permettere agli altri di pestarla meglio. Schauble non avrebbe avuto un potere incontrastato se Draghi non avesse tenuto «bloccato» l’avversario. Una strategia alternativa deve quindi prospettare fin da ora una diversa governance della Bce. Chiederne la fine dell’indipendenza non basta: significa consegnarla nelle mani del Consiglio, o dei singoli governi. Meglio allora, senza attendere un «governo europeo» e quell’unità politica che si sta invece allontanando a passi da gigante, sottoporre Banca centrale e politica monetaria al Parlamento europeo: che potrebbe però esercitare – se adeguatamente attrezzato, e in regime di trasparenza — solo funzioni di indirizzo e di controllo. Su questo tema c’è già una campagna, lanciata però in termini poco chiari, i cui termini andrebbero anch’essi discussi per tempo.
Infine, è sbagliato alimentare un risentimento antitedesco in contrapposizione al nazionalismo che ha guidato il negoziato, fomentato fin dall’inizio all’insegna di una grande menzogna («i greci se la spassano a nostre spese…») per aizzare l’elettorato delle maggioranze al governo. La Germania non è un monolite: se i vantaggi usurari ricavati dall’euro (un tema su cui la pubblicistica mainstream tace) sono in parte ricaduti anche sulla sua popolazione, è anch’essa però divisa in classi, sulle quali le politiche europee incideranno sempre più in modo differente. A guadagnarci, da un’Europa e da un euro germanocentrici, non è stata tanto «la Germania», quanto la finanza internazionale e le multinazionali al cui servizio si è posto il suo governo. Per far saltare quelle politiche deve aprirsi anche lì una frattura lungo un fronte sociale. Che non ha bisogno della demonizzazione del popolo tedesco né di richiami al suo passato nazista; ma di una chiara identificazione degli interessi in gioco: gli stessi in Germania, in Italia, e in tutto il resto dell’Europa.
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