La tenuta della democrazia

Il libro. Il processo del 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore Giovanni Palombarini

Un secolo prima di quel 7 aprile 1979 il giu­ri­sta libe­rale Fran­ce­sco Car­rara scri­veva che in mate­ria poli­tica le regole del diritto cri­mi­nale si tra­sfor­mano sem­pre in una poe­sia arca­dica. Ipse dixit. Quasi cento anni dopo il Pub­blico Mini­stero Pie­tro Calo­gero nella sua requi­si­to­ria finale del 23 gen­naio 1978, definì Auto­no­mia Ope­raia come un movi­mento rea­zio­na­rio costi­tuito da emar­gi­nati della classe bor­ghese la cui ideo­lo­gia non era altro che «un nuovo fasci­smo». Un giu­di­zio quan­to­mai sin­go­lare per un magi­strato, che rive­lava un mal­ce­lato livore ten­dente ad esclu­dere dal novero della sini­stra i movi­menti anta­go­ni­sti com­parsi ormai da anni nello sce­na­rio poli­tico pado­vano e nazio­nale. Un giu­di­zio non giu­ri­dico ma poli­tico che coin­ci­deva esat­ta­mente con quello del PCI. Gli espo­nenti più in vista del par­tito par­la­vano di «nuovo squa­dri­smo» e di «dician­no­vi­smo» e furono parte attiva nella costru­zione di quella ope­ra­zione politico-giudiziaria che cri­mi­na­lizzò il movi­mento dell’Autonomia Ope­raia asso­cian­dolo alle BR, costrin­gendo al car­cere pre­ven­tivo per molti anni decine di per­sone risul­tate alla fine inno­centi. Ma non c’era solo il PCI a soste­nere la tesi del PM, tranne pochis­sime ecce­zioni infatti vi era anche buona parte della stampa che dieci anni prima aveva già spe­ri­men­tato, col pro­cesso Val­preda per la strage di piazza Fon­tana, il ruolo col­pe­vo­li­sta di appog­gio alla tesi dell’accusa diven­tan­done spesso por­ta­voce e mega­fono. Improv­vi­sa­mente i gior­na­li­sti dell’Unità, di Paese Sera e dell’Avanti sino allora emar­gi­nati dagli uffici giu­di­ziari e poli­zie­schi otte­ne­vano noti­zie ine­dite, pri­mi­zie, con­fi­denze. In coro ripor­ta­vano le tesi inqui­si­to­rie amplian­dole e sot­to­li­neando al con­tempo le «pre­sunte debo­lezze ed incer­tezze dei giu­dici istrut­tori». Nes­sun dub­bio sul «par­tito calo­ge­riano dell’insurrezione» come invece non man­ca­vano di sot­to­li­neare i media inter­na­zio­nali. In que­sto clima niente affatto tran­quillo, dun­que, si trovò ad ope­rare Gio­vanni Palom­ba­rini che, a 36 anni di distanza, è tor­nato a scri­vere di quel pro­cesso nel volume Il pro­cesso 7 aprile nei ricordi del giu­dice istrut­tore Gio­vanni Palom­ba­rini, Il Poli­grafo edi­tore. Il magi­strato, già pre­si­dente di Magi­stra­tura Demo­cra­tica, con­fronta tra loro atti giu­di­ziari, rico­stru­zioni gior­na­li­sti­che e lucidi ricordi per­so­nali in un impre­ve­di­bile intrec­cio che tra le righe rivela anche fatti sor­pren­denti rima­sti sinora sco­no­sciuti. Uno col­pi­sce tra i tanti. Un giorno Palom­ba­rini riceve dal PM un fasci­colo zeppo di docu­menti. Al suo interno trova una busta inviata a Calo­gero dal Pro­cu­ra­tore Gene­rale di Catan­zaro nella quale, con una breve let­tera di accom­pa­gna­mento, era con­te­nuto un rap­porto del Sisde sullo stesso Palom­ba­rini. Evi­dente il ten­ta­tivo di dele­git­ti­mare il giu­dice istrut­tore accu­sato dagli ambienti del PCI pado­vano di essere vicino al mondo dell’Autonomia.

Le diver­genze tra Pie­tro Calo­gero ed i giu­dici istrut­tori Gio­vanni Palom­ba­rini e Mario Fabiani sono note. Il primo rite­neva che lo scio­gli­mento di Potere Ope­raio nel 1972 non ci fosse mai stato e che Auto­no­mia Ope­raia Orga­niz­zata ope­rasse per l’insurrezione attra­verso il par­tito armato. I secondi soste­ne­vano invece che non esi­ste­vano risul­tanze pro­ces­suali che dimo­stras­sero un legame asso­cia­tivo fra Auto­no­mia e Br. Rite­ne­vano inol­tre che ci fosse una pro­fonda dif­fe­renza fra la linea stra­te­gica e l’iniziativa con­creta espressa dai primi e quelle dell’organizzazione clan­de­stina. Il giu­dice istrut­tore nel suo libro rico­strui­sce meti­co­lo­sa­mente le diverse ed intri­cate fasi dell’inchiesta che ini­ziò due anni prima quando nel marzo del 1977 Calo­gero spiccò man­dati di cat­tura con­tro gio­vani ade­renti ai Col­let­tivi Poli­tici Veneti accu­sati di azioni come le occu­pa­zioni delle mense uni­ver­si­ta­rie, le inter­ru­zioni delle lezioni uni­ver­si­ta­rie, aggres­sioni a docenti e così via. L’accusa di asso­cia­zione per delin­quere viene mossa anche ad alcuni docenti e tec­nici della facoltà di Scienze Poli­ti­che tra cui Anto­nio Negri. Curio­sità: Palom­ba­rini ricorda che pro­prio nel novem­bre di quell’anno a Padova si tenne un con­ve­gno sul tema «Ope­rai­smo e cen­tra­lità ope­raia» orga­niz­zato dall’Istituto Gram­sci Veneto a cui par­te­ci­pa­rono Gior­gio Napo­li­tano, Mas­simo Cac­ciari, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti e Aris Accor­nero. Nell’aprile del ’78 il giu­dice istrut­tore Palom­ba­rini dichiarò non pro­vata l’esistenza di una orga­niz­za­zione cen­trale veneta dell’Autonomia Ope­raia e quel primo pro­cesso si con­cluse col rin­vio a giu­di­zio di qual­che impu­tato per reati spe­ci­fici, men­tre cadde per strada l’associazione per delin­quere. Ma anzi­ché chiu­dere la par­tita il PM nel ’79 ritorna ad accu­sare di sov­ver­sione gli stessi impu­tati ipo­tiz­zando che a Padova si celasse il ver­tice del ter­ro­ri­smo ita­liano che legava tra loro Auto­no­mia Ope­raia e Bri­gate Rosse. In un deli­rio col­pe­vo­li­sta mili­tanti del PCI riten­nero di rico­no­scere le voci di Toni Negri e del gior­na­li­sta dell’Espresso Giu­seppe Nico­tri come quelle dei tele­fo­ni­sti delle BR durante il seque­stro Moro. Così alle 10 di quel famoso 7 aprile 1979 un aereo atterra al «Marco Polo» di Tes­sera, una cin­quan­tina di uffi­ciali della Digos arri­vano a Padova su due pull­man e mezz’ora dopo asse­diano la città con mezzi blin­dati. L’operazione fu masto­don­tica: 22 ordini di cat­tura, 70 ordini di com­pa­ri­zione e un cen­ti­naio di per­qui­si­zioni domi­ci­liari. Tra gli arre­stati Anto­nio Negri, ordi­na­rio di Dot­trina dello Stato all’Università di Padova; Luciano Fer­rari Bravo, assi­stente; Emi­lio Vesce, diret­tore di Radio Sher­wood e della rivi­sta Auto­no­mia; Ore­ste Scal­zone, fon­da­tore dei Comi­tati comu­ni­sti rivo­lu­zio­nari; Mario Dal­ma­viva, lea­der tori­nese di Potere ope­raio. Il 16 aprile da Roma, rite­nuta ter­ri­to­rial­mente com­pe­tente, arriva un altro man­dato di cat­tura con­tro Anto­nio Negri, accu­sato di essere (insieme a Moretti, Alunni, Mica­letto, Peci, Faranda, Morucci e altri 16) l’assassino di Moro e dei cin­que uomini della sua scorta. A Padova riman­gono gli impu­tati «minori», quelli per cui non scatta il coin­vol­gi­mento nell’insurrezione armata.
Dopo cin­que anni, il 12 giu­gno 1984, viene emessa la sen­tenza di primo grado del tron­cone pado­vano. E men­tre nel ’79 il pro­cu­ra­tore della Repub­blica di Padova Aldo Fais aveva assi­cu­rato la stampa dicendo che se non aves­sero avuto prove sicure «mai e poi mai saremmo usciti con così gravi prov­ve­di­menti», cin­que anni dopo tre­dici impu­tati ven­gono assolti per insuf­fi­cienza di prove, uno con for­mula piena; 34 sono giu­di­cati col­pe­voli di reati asso­cia­tivi; 21 di reati spe­ci­fici. Il pro­cesso si chiu­derà due anni dopo con l’assoluzione di quasi tutti. Anche la sen­tenza di secondo grado della Corte d’assise d’appello romana nel 1987 riduce visto­sa­mente le pene e pro­pone nuove asso­lu­zioni. Sen­tenza con­fer­mata l’anno dopo in Cas­sa­zione. Tutti gli impu­tati ven­gono assolti del reato di Insur­re­zione armata. Ma men­tre a Roma è la stessa Pro­cura della Repub­blica a chie­dere il pro­scio­gli­mento con for­mula piena di Negri del reato di asso­cia­zione sov­ver­siva e banda armata, a Padova le cose vanno diver­sa­mente. Tra Pro­cura e giu­dice istrut­tore volano scin­tille. Già nel ’79 Calo­gero chie­deva che nel col­le­gio istrut­tore non ci fosse Gio­vanni Palom­ba­rini che accu­sava di aver incon­trato Negri almeno quat­tro o cin­que volte. In realtà si era trat­tato di incon­tri legati ad udienze. Il giu­dice pidui­sta Anto­nio Buono parla di col­le­ganze ideo­lo­gi­che e la stampa vicina al PCI accen­tua la sua osti­lità nei con­fronti del giu­dice. Palom­ba­rini sot­to­li­nea la man­canza o l’insufficienza di prove spe­ci­fi­che rela­tive ai vari capi di accusa. Defi­ni­sce le prove testi­mo­niali molto spesso gene­ri­che e carat­te­riz­zate da valu­ta­zioni, impres­sioni e rife­ri­menti a cose dette da terze per­sone quasi mai indi­cate nomi­na­ti­va­mente. Gli ven­gono sot­tratti per­sino i col­la­bo­ra­tori di giu­sti­zia. Nel dicem­bre del ’79 Carlo Fio­roni ex mili­tante di Potere Ope­raio, ad esem­pio, depose a Roma, Milano e Padova, ma i giu­dici istrut­tori Palom­ba­rini e Fabiani non furono avver­titi del pen­ti­mento e l’interrogatorio del col­la­bo­ra­tore si svolse a loro insa­puta. Que­sto ultimo inol­tre quando Palom­ba­rini si recò a Roma per sen­tirlo si rifiutò, in qua­lità di impu­tato, di rispon­dere. Fu gra­zie alle sue dichia­ra­zioni che Anto­nio Negri fu accu­sato del seque­stro e dell’omicidio di Carlo Saro­nio oltre­ché dell’omicidio del magi­strato mila­nese Emi­lio Ales­san­drini. Con­ti­nue nuove impu­ta­zioni che coste­ranno agli impu­tati una ulte­riore esten­sione fino ad altri quat­tro anni della car­ce­ra­zione pre­ven­tiva. Ad indi­gnarsi però c’è solo Amne­sty Inter­na­tio­nal che inter­viene nell’agosto del 1983 con un duris­simo comu­ni­cato. Calo­gero non arre­tra nem­meno dopo l’interrogatorio del bri­ga­ti­sta Patri­zio Peci che negherà ogni legame con Auto­no­mia Ope­raia e tan­to­meno con Toni Negri.
I con­tra­sti col giu­dice istrut­tore si pro­trar­ranno fino alla fine, cau­sando così una lunga sequenza di prov­ve­di­menti giu­di­ziari con­tra­stanti tra loro, un bal­letto di impu­gna­zioni e di scar­ce­ra­zioni degli impu­tati, alcuni dei quali non potranno che sce­gliere di fug­gire in Fran­cia. Ma a sup­por­tare le per­ples­sità dei giu­dici istrut­tori ci sono anche i giu­dici. Basti pen­sare che nella stessa severa sen­tenza del 26 luglio 1980 dopo un pro­cesso per diret­tis­sima il Tri­bu­nale scri­veva che si met­teva sotto accusa non tanto la dina­mica dei fatti ma «soprat­tutto la sua genesi poli­tica». Quella sen­tenza venne accolta dagli impu­tati pre­senti in aula con il canto dell’Internazionale e dopo pochi mesi Palom­ba­rini rico­no­scerà la libertà prov­vi­so­ria a dodici dei ven­ti­sette impu­tati con­dan­nati a meno di due anni di reclu­sione revo­cando anche i prov­ve­di­menti restrit­tivi nei con­fronti dei lati­tanti Roberto Ragno e Pie­tro Maria Greco. Que­sto ultimo dopo due anni ritornò lati­tante per un altro man­dato di cat­tura spic­cato dalla pro­cura vene­ziana e venne ucciso dalla poli­zia nel 1985 a Trie­ste men­tre, disar­mato, ten­tava di fug­gire. I poli­ziotti respon­sa­bili ven­nero assolti nel 1986, in quella occa­sione il poeta Franco For­tini scrisse una let­tera al Mini­stro della Giu­sti­zia Mino Mar­ti­naz­zoli che venne poi pub­bli­cata dal set­ti­ma­nale L’Espresso. Ste­fano Rodotà com­men­terà dalle pagine del Mani­fe­sto le scar­ce­ra­zioni per man­canza di indizi e la sen­tenza di pro­scio­gli­mento con for­mula piena del 4 set­tem­bre 1981 di Del Re, Bian­chini e Sera­fini par­lando di asso­luta incon­si­stenza delle prove. Nel suo libro Palom­ba­rini non si sot­trae dal fare alcune inter­vi­ste a Seve­rino Galante, Gianni Ric­cam­boni, Gior­gio Tosi e Gio­vanni Valen­tini testi­moni del tempo ed espo­nenti della società civile per­corsa da lace­ranti frat­ture ieri come oggi. Ma ciò che più preme al giu­dice è come un approc­cio dedut­tivo quale quello del PM che par­tiva da «verità pre­co­sti­tuite» abbia posto il pro­blema di «dram­ma­tica rile­vanza» della car­ce­ra­zione pre­ven­tiva. Nell’ultima pagina del libro Palom­ba­rini scrive infatti «nel suc­ce­dersi di innu­me­re­voli prov­ve­di­menti di car­ce­ra­zione e scar­ce­ra­zione — in qual­che caso di impu­tati che ad un certo punto si sono rifu­giati all’estero ma che comun­que hanno ini­zial­mente sof­ferto di periodi non tra­scu­ra­bili di custo­dia cau­te­lare, e in altri casi di per­sone trat­te­nute costan­te­mente in car­cere con impu­ta­zioni cla­mo­rose — è avve­nuto che alla fine, dopo anni, accuse gra­vis­sime si siano dis­solte in nume­rose sen­tenze di asso­lu­zione. È pos­si­bile su que­sto oggi svi­lup­pare una rifles­sione?». Un nodo ancora irri­solto che riguarda non solo il pro­cesso penale ma soprat­tutto i fon­da­menti della nostra civiltà giu­ri­dica e la stessa tenuta della democrazia.

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