Alternative. Il «populismo» di Podemos e il movimentismo di Barcellona in comune sono esempi di una politica che si rinnova
La Spagna è stata una delle nazioni europee più colpite dalla crisi. Oggi si parla enfaticamente di remontada, ma l’eredità di questi anni è pesante: il tasso di disoccupazione rimane altissimo, con una forbice tra ricchi e poveri più aperta che in qualsiasi altro paese dell’eurozona. L’austerità ha fatto guadagnare qualche punto sul versante dei disavanzi pubblici, a scapito però del reddito dei cittadini e del lavoro, oltre che del debito, schizzato al 98,1 per cento del Pil (40 per cento in più rispetto al 2008). Certamente non ha sanato una delle ferite più gravi che il paese si porta addosso: gli effetti dello scoppio della bolla immobiliare, tra pignoramenti, sfratti, aumento del numero dei senza casa. E dei suicidi. Un abisso di disperazione, in cui tante vite sono ancora oggi risucchiate, nonostante i toni trionfalistici del governo che si lascia andare a dichiarazioni del tipo «la crisis es historia pasada».
È da qui che bisogna partire per comprendere come nasce e perché si sviluppa il movimento degli Indignados, opposizione di massa, dal basso, all’ideologia dell’austerity, di cui Podemos oggi costituisce la dimensione matura, organizzata. Non un movimento estemporaneo, a sua volta, ma il prodotto di un intreccio fecondo tra lavoro di ricerca, teorico, sulle conseguenze sociali della crisi — che parte dalle università — ed attivismo politico, lotta per il cambiamento che si dipana nelle piazze, nella società. Parlare semplicemente di Podemos, a proposito dei cambiamenti politici che attraversano la Spagna, e dei risultati delle elezioni del 24 maggio, sarebbe comunque fuorviante. Nel panorama politico del paese in questi ultimi anni si è assistito alla nascita ed al consolidamento di nuove esperienze di cittadinanza attiva a livello locale, metropolitano, cui si deve, in gran parte, il successo delle liste alternative a Barcellona e a Madrid. Parliamo dei “Ganemos” (dal verbo ganar, vincere), assemblee di cittadini organizzate per quartieri e rioni (barrios), anch’esse figlie delle grandi mobilitazioni sociali degli anni scorsi contro l’austerità.
In questo quadro si inserisce il “laboratorio” Barcellona, dove la vittoria se l’è aggiudicata la coalizione guidata da una figura simbolo delle lotte per la casa: Ada Colau, classe 1974, ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah), associazione nata sull’onda della crisi immobiliare del 2008, distintasi in questi anni per azioni di disobbedienza civile e resistenza passiva contro gli sfratti. Il raggruppamento che la candidava, oltre a Podemos ed al Ganemos (“Guaynem”, in Catalano) locale “Barcelona En Comù”, comprendeva anche altre forze politiche come Icv (Iniciativa per Catalunya Verds), i verdi catalani, e Izquierda Unida. Che a diventare sindaco di una città così importante sia una ragazza dei movimenti, una paladina degli sfrattati, fa notizia, certo. Ma ci siamo chiesti quali proporzioni ha assunto il fenomeno degli sfratti in questi anni in Spagna e a Barcellona? Un’epidemia, è stato più volte detto. E questo è. Se a ciò si aggiunge il dramma dei disoccupati, degli anziani ridotti in miseria dalla crisi, la cosa diventa un tantino più plausibile. O no? E lo stesso discorso, fatte le dovute differenze, potrebbe valere per Madrid ed altri grossi centri in cui le liste alternative si sono imposte su quelle dei partiti tradizionali. «Non è la coscienza che determina la vita».
Resta un dubbio, però: queste esperienze possono essere replicate con successo su scala nazionale? Dopo le europee questo era il primo banco di prova per misurare il potenziale elettorale del movimento in vista delle politiche di novembre. La vittoria c’è stata, non v’è dubbio, ma dev’essere interpretata. I numeri dicono che Podemos può ambire a governare il paese, ma non da solo. C’è un’evidente differenza, infatti, tra il risultato che il partito ottiene nelle regioni e quello che, insieme ad altre forze e movimenti, raggranella nei principali centri del paese. Nelle alleanze, la sua forza, dunque. O almeno così sembrerebbe. In prospettiva, però, non è scontato che tali alleanze, costruite su base locale, possano tradursi sic et simpliciter in un blocco elettorale vincente su scala nazionale. Molto dipenderà anche dal voto delle periferie, degli angoli più remoti del paese.
C’è populismo nel messaggio che Podemos veicola? Non c’è dubbio. È un segno dei tempi. Crisi sociale e discredito della politica tradizionale costituiscono un binomio inscindibile in questa fase. D’altronde la percezione collettiva dell’inutilità della politica oggi va di pari passo, un po’ ovunque, con quella dei suoi privilegi, della sua separatezza. Questo Podemos l’ha ben compreso; Iglesias ne ha parlato e scritto ampiamente, mettendo in relazione il concetto di crisi economica con quello di «crisi di regime». Più prosaicamente, lo dimostrano gli slogan del movimento: «¡Que no nos representan!», «Los partidos de la casta», «¡Ladrones, corruptos, gentuza!». Temi trasversali, che incontrano favore e suscitano interesse anche tra i ceti meno sensibili al discorso economico sulla crisi, su cui potrebbe giocarsi il grosso della prossima competizione elettorale.
Intanto il partito di Iglesias e i suoi alleati portano a casa un risultato storico: l’aver messo la parola fine a oltre trent’anni di bipolarismo, imperniato sull’alternanza tra Psoe e Partido Popular. Fine di un’epoca. Ma non basta. C’è un altro dato che conferisce valore storico al loro successo elettorale: la (ri)nascita nel paese di una sinistra anti-liberista a vocazione maggioritaria. La crisi, fedele alla sua natura incendiaria, si è fatta levatrice anche di una sinistra nuova, interprete del suo tempo, al pari di altre fratture storiche e mutamenti socio-economici del passato. Oggi in Spagna, domani in tutta Europa?
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