Narrativa. «La scomparsa di Philip S.» di Ulrike Edschmid per e/o. La sofferta e avvincente vita di una generazione tedesca ribelle. Il libro al Salone del libro
Cosa spinge a raccontare dopo quarant’anni la vita di una persona con cui si è trascorso del tempo, avendo per giunta pochissimi dati a disposizione e una cronaca assai controversa con cui misurarsi? È un desiderio di riappropriarsi di parti di sé o piuttosto un tarlo della mente che non vuole proprio abbandonare la dimora?
La scomparsa di Philip S. (e/o, pp. 160, euro 16 – traduzione a cura di Monica Pesetti) è il primo libro di Ulrike Edschmid a essere tradotto in italiano e l’ultimo pubblicato dalla scrittrice tedesca. Quando in Germania esce Der Verschwinden des Philip S. (Suhrkamp, 2013) lei ha 73 anni e ha all’attivo alcuni volumi, tutti complessi perché si intrecciano con una storia politica e sociale che è quella tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.
La vicenda è raccontata già dal titolo, in luogo della scomparsa di un tale Philip S. che la scrittrice ha conosciuto e amato. Alla storia della relazione tra Ulrike Edschmid e Philip Werner Sauber, svizzero di buona famiglia che arriva a Berlino ventenne nel 1967 per frequentare l’Accademia del cinema, fanno da sfondo gli anni delle rivolte studentesche, dell’antagonismo e della lotta armata.
Realtà e omissioni
Ulrike, ventisettenne e con un figlio piccolo, incontra Philip S. proprio all’Accademia, per caso la aiuta a fare un trasloco e poi resta a vivere con lei. Sono anni di conflitti sociali durissimi che Edschmid non racconta con l’algidità della cronaca dei giornali ma di chi ha vissuto dall’interno le radicalizzazioni studentesche fino alla decisione di non sottrarsi allo scontro. È il mutamento del tragitto politico di Philip S. dentro il Movimento 2 giugno, la latitanza e la morte dopo una sparatoria in un parcheggio di Colonia il 9 maggio del 1975. Aveva ventotto anni. Proprio su questa che Edschmid descrive come una «morte pubblica», come pubblica seppure con ben altra risonanza è stata quella dello studente Benno Ohnesorg in quel 2 giugno del 1967, si apre il romanzo autobiografico in cui ben poche sono le invenzioni per chi conosce lo stato delle cose, anche rispetto a una ricostruzione storica che nonostante alcune omissioni si può ricondurre agli eventi accaduti in quegli anni e non solo in Germania.
Alla scrittrice non sembra interessi riabilitare qualche memoria soggettiva, compresa la propria, né tantomeno restituire un’immagine falsata della crudeltà dolorosa e spesso vissuta, anche da lei in prima persona. Allora cosa le interessa? Difficile stabilirlo una volta per tutte. Il ritorno di questo fantasma che sostanzialmente è Philip S. raramente acquisisce un corpo e per questo lo si può da subito immaginare come chi ha scelto la clandestinità molto prima di abbracciarla deliberatamente. Del resto anche l’insistenza di nominarlo Philip S. dà la misura di quanto sia sorvegliata la narrazione di Edschmid che non ha avuto certo intenzione di cedere a romanticismi né a sentimenti, nonostante i due abbiano condiviso tutto per quattro anni. Le scelte culturali, politiche e di posizionamento, dapprima la scommessa del cinema e della fotografia come modo di registrare fedelmente la realtà, farne qualcosa all’altezza della politica. Poi le prime riunioni, la scoperta di un nuovo lessico, l’asilo anti-autoritario secondo il modello di Sommerhill. L’ingiustizia di un mondo che stava andando in pezzi, e poi qualcosa che sfugge dalle maglie e non viene mai detto per intero.
Due anni fa, in un’intervista radiofonica rilasciata a Liane von Billerbeck, alla domanda su cosa le sia rimasto di un’esperienza simile, Edschmid risponde di aver mantenuto «un certo anarchismo» e che vive provando a essere consapevole ma in un «fuorigioco critico». C’è da considerare l’ipotesi che lei sia stata sempre da un’altra parte e che questo libro sia il modo per esplicitare la libertà di uno smarrimento essenziale, anche davanti a chi preferirebbe un posizionamento più netto. Proprio per questo degli altri suoi libri, per il momento solo in lingua tedesca, sarebbe utile conoscerne almeno i tratti salienti per inquadrarla in ciò che è la sua storia biografica e letteraria. Per esempio Diesseits des Schreibtischs. Lebensgeschichten von Frauen schreibender Männer (Luchterhand) che rappresenta alcune conversazioni con sette donne (Pia Kipphardt, Anna Ditzen, Hildegard e Renate Bronnen, Liselotte Zoff, Katharina Leithäuser e Irene Kreuder) dove al racconto biografico si intrecciano alcune discussioni e analisi politiche tra donne. Oppure le due storie femminili di Verletzte Grenzen. Zwei Frauen, zwei Lebensgeschichten(Luchterhand, 1992) o Die Liebhaber meiner Mutter (Insel, 2006) in cui attraverso la ricostruzione della vita amorosa della propria madre riconosce le tappe dell’infanzia e delle fisionomie politiche e sociali post-belliche a partire dalla vita di una donna. Gli amanti della madre servono quindi a Ulrike per nominare momenti di passaggio necessari e di trasformazione. Nella stessa ansia di conoscere è da leggersi il lungo epistolario Wir wollen nicht mehr darüber reden (Luchterhand, 1999) tra Erna Pinner e Kasimir Edschmid.
Il nemico assoluto
Tra il 1971 e il 1972, e in particolare nel periodo trascorso in carcere, qualcosa cambia, un’incompatibilità che non è più valicabile tra lei e chi le sta accanto: «Lui adesso traccia una linea netta tra sé e quelli che considera suoi nemici. Io non riesco a vivere nell’ostilità, benché siano molte le cose che percepisco come ostili. Lui ha giurato di non farsi più mettere dentro. Io ho giurato di non farmi più mettere dentro per qualcosa di cui non sono responsabile. Lui è convinto di poter sfuggire alla prigione solo diventando qualcun altro. Io sono convinta che posso resistere solo restando me stessa. Lui è uscito per andarsene. Io sono tornata alla mia vita». All’orlo dell’impossibilità Ulrike Edschmid interroga una distanza, cerca di capacitarsi dell’ineluttabilità, e infatti ammette: «non c’era nulla che avrei potuto mettere sul piatto della bilancia se non l’incredibile varietà dell’esistenza e la convinzione che possa esistere una vita giusta in un mondo sbagliato».
Alla fine della lettura il senso di interrogazione dell’autrice si somma al breve lucore di una scomparsa, che in mezzo a tanto buio e a molte domande brilla unicamente in quel vialetto frontale alla finestra da cui proprio Ulrike guarda l’allontanarsi di una figura. È un ragazzo ora di spalle, nella forma di un congedo. Non ha mai desiderato fare ritorno, forse lo si può davvero lasciare andare.
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