Alla Mayday milanese si è mostrata in piazza una parte importante, determinata e determinante delle soggettività politiche e sociali che si oppongono alle politiche del governo Renzi
Alla Mayday milanese si è mostrata in piazza una parte importante, determinata e determinante delle soggettività politiche e sociali che si oppongono alle politiche del governo Renzi e alle narrazioni sulle “magnifiche sorti e progressive” che si aprirebbero davanti al nostro paese grazie alla “politica del fare”.
Trentamila persone, dipinte dal Presidente del Consiglio e da media compiacenti come “gufi” fuori e contro la storia, come un pittoresco residuo che non riesce a intendere il cambiamento in atto.
Al contrario i trentamila in piazza hanno compreso bene la direzione del “cambiamento” imposta da questo Governo. E hanno compreso bene come l’evento Expo – per certi versi episodio “marginale” di fronte a quanto succede nel mondo – sia al tempo stesso simbolo e acceleratore (sul piano politico, economico e ideologico) di tali politiche.
La rete milanese NoExpo da sette anni lavora, con tenacia e intelligenza, per demistificare l’evento, rendere chiaro quale sia il suo significato e quali conseguenze sta producendo. Un lavoro che ha prodotto riflessioni, analisi, denunce e che ha provato anche a far circolare proposte alternative, non all’evento in sé, quanto alla narrazione e alle politiche che accelera.
Non si può non vedere però che questo lavoro non è bastato a produrre un allargamento significativo della superficie di contatto con i soggetti colpiti da quelle politiche e che in diversi modi avremmo dovuto coinvolgere in maniera diretta e comprensibile: promuovendo pratiche di opposizione e strumenti per l’autorganizzazione e la partecipazione su obiettivi specifici. Un po’ sul modello di quello che abbiamo visto in Brasile per le mobilitazioni contro le politiche prodotte dal Mondiale di calcio. Ma la dimensione dell’autorganizzazione dei soggetti è stata del tutto assente, o quasi.È questo il primo problema che tutti ci dovremmo porre, antecedente alla dinamica fuoriuscita dalla piazza e che in parte ne spiega anche la difficoltà: come si radica socialmente la lotta contro Expo?
Il corteo – anche uno importante come questo della Mayday – non è mai il momento principale e nemmeno il più importante in cui si pratica il conflitto, ma deve essere un piccolo evento capace di parlare non solo a chi vi partecipa ma anche, in questo caso, di svelare alla città la realtà nascosta dietro la campagna martellante dei media. Per poter poi rilanciare il conflitto e l’autorganizzazione contro le politiche di precarizzazione, cementificazione e debito imposte da Expo.
Tale rilancio dalla may day è stato evidentemente reso più difficile dalle scelte di una soggettività politica organizzata che ha voluto fare di quel corteo un momento di estetica del riot, imponendo una pratica di piazza dentro e contro la volontà della maggior parte delle donne e degli uomini che partecipavano.
Non prendiamoci in giro. Ciò che si è visto a Milano non è stata una rivolta spontanea di un conflitto reale, ma la semplice rappresentazione scenica della rivolta, la manifestazione di una forza organizzata che ha voluto spezzare il ritmo e il consenso che in questi anni la rete NoExpo ha cercato di costruire in maniera aperta alle diverse soggettività. Un modo come un altro per mettere il “cappello” ad una manifestazione, in maniera ormai piuttosto vecchia e scontata. Noiosa.
Si, noiosa, perché i riot visti a Milano non hanno nulla a che vedere con quanto accade a Baltimora. Un conto è l’espressione di una rabbia diretta, autorganizzata e rivolta direttamente contro ciò che si contesta, altro è una pratica organizzata da una precisa soggettività politica, per di più senza un obiettivo comprensibile.
Non ci interessa alcun discorso moralista sentito in questi giorni, né l’idea di dover educare a una presunta “giusta pratica rivoluzionaria”. Così come non ci interessano le tante sciocchezze sentite riguardo a infiltrazioni di vario tipo. A noi interessa l’autorganizzazione dei soggetti sociali, e la democrazia dei movimenti, e sono proprio queste le dinamiche del tutto assenti nei fatti della may day.
L’autorganizzazione non si organizza, produce le sue forme nelle dinamiche del conflitto, ma in una fase in cui il conflitto reale va ancora costruito le soggettività sociali e politiche devono sapersi coalizzare, mettersi in rete rispettandosi e arricchendosi l’un l’altra. Specie in una fase ben diversa da quella di 10 o 15 anni fa, in cui qualche soggetto, partito o area politica poteva dirsi egemone rispetto ad altre.
Non ci interessa separare i buoni dai cattivi, questo giochino lo lasciamo ad altri. A noi interessa avere corrette relazioni nel movimento in grado di rispettarne l’eterogeneità, unico modo in questa fase per costruire reti di opposizione sociale e politiche più larghe e inclusive, in grado di saper allargare la partecipazione conflittuale.
Intendiamoci. La scelta della stampa di concentrare tutta l’attenzione sugli eventi e gli “scontri” – già presa nei giorni precedenti inventando inesistenti “assalti” a banche e ritrovamenti di fantasiosi armamentari – è volutamente strabica. Parlare di una città “devastata” e di Milano a “ferro e fuoco” per danni limitati ad un triangolo di vie, fa parte della narrazione tossica che volevano cucire sopra i no Expo, fomentando un’indignazione del tutto sproporzionata e fuori luogo sulla città “violata”. La manifestazione organizzata da PD e maggioranza arancione ha messo in campo un proposta moralistica del tutto ipocrita. Si fomenta l’indignazione per danni economici circoscritti e contenuti nei costi, senza aver provato invece la minima indignazione per i miliardi di euro sprecati da Expo, per quelli finiti in tangenti e corruzione, e senza aver sprecato nemmeno un commento per chi è morto nel cantiere dell’Expo lavorando in condizioni infernali pur di renderlo “fruibile” il primo maggio. Un’ipocrisia che serve solo a contrapporre una presunta “Milano città aperta e solidale” alla possibilità del dissenso, presentandosi di fatto come il solo cambiamento possibile.
Così come ci fanno venire l’orticaria le richieste di “condanne esemplari” e l’insistenza sul reato di “devastazione e saccheggio” (con pene che arrivano fino a 15 anni!), dispositivo letale reintrodotto per reprimere i fatti di Genova 2001 e da allora sventolato ad ogni manifestazione con scontri di piazza per criminalizzare il movimento intero, colpendo singole persone e tentando di affrontare una questione politica e sociale sul piano penale.
Noi rivendichiamo fino in fondo di aver partecipato all’organizzazione della Mayday e la nostra internità alla rete Attitudine No Expo (che è chiamata ad una difficile e importante discussione, che comincia con il comunicato uscito ieri). Rivendichiamo la scelta di stare in un corteo difficile, per il quale segnali di possibili episodi che non avremmo condiviso c’erano tutti, ma pensiamo sia stata sbagliata la scelta di alcuni di porsi fuori, di subire il ricatto delle possibili “violenze”, di non tentare e inventare pratiche autonome, democratiche ed efficaci.
Oggi però si impone una riflessione sulle pratiche e sulla capacità di proteggerne il senso collettivo e la possibilità reale di raggiungere gli obiettivi che ci si è dati collettivamente – senza cadere nella scorciatoia (peraltro impossibile da realizzare) della costruzione di servizi d’ordine capaci di risolvere le questioni sul piano “militare”. La questione è politica e politicamente va risolta.
Una riflessione sulle pratiche che investa i modi con cui si esprime conflitto in un corteo, ma che sappia andare anche al di là interrogando la quotidianità dell’impegno sociale e politico, fatta di riappropriazione, percorsi politici capaci di essere credibili e aperti, relazioni dal basso e conflitto – per radicare socialmente le lotte e ottenere risultati, pur in un contesto non facile.
Per questo vogliamo valorizzare quanto la rete ha fatto in questi giorni, oltre al corteo. Stiamo parlando del nostro contributo alla realizzazione della “tavolata popolare” davanti Eataly, insieme allo spazio Fuorimercato e Genuino Clandestino – momento che ha mostrato le alternative che esistono e che vanno costruite ogni giorno. Parliamo delle iniziative della e alla RiMaflow. Parliamo della nostra presenza nella rete NoExpoPride e così via…
Pratiche volte a promuovere, salvaguardare e consolidare percorsi sociali, con l’obiettivo di una politicizzazione collettiva. Ogni “coalizione sociale” può essere un terreno dove sperimentare e costruire questa politicizzazione collettiva, se è capace di produrre iniziativa e di includere conflitti, vertenze, pratiche dal basso.
I prossimi sei mesi la sfida sarà riuscire a manifestare la nostra opposizione a Expo e a quello che rappresenta oltre la forma corteo e oltre la risposta ad ogni evento. E’ la sfida di saper costruire un conflitto sociale reale.
Quello che vogliamo e dobbiamo fare è consolidare le reti esistenti, allargare la superficie di contatto con chi è colpito dalle politiche renziane, costruendo spazi per la loro autorganizzazione e insieme capire davvero come quelle politiche incidono sulle nostre vite.
Expo esiste e continuerà a esprimere narrazione tossica, ideologia, circuiti di relazioni per il rilancio dei profitti. Noi dobbiamo essere in grado non solo di costruire una diversa narrazione, ma di saperla comunicare; non solo di costruire spazi di riappropriazione, ma di saperli aprire e rendere attraversabili; non solo denunciare le nuove schiavitù e sfruttamento del lavoro, ma di intercettare i soggetti reali favorendone l’autorganizzazione realmente conflittuale.
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