Cile. Sotto gli artigli del piano Condor finirono anche 20 italiani. I loro presunti assassini sono ora sotto processo nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia
«Il presidente non si arrende, merda». Nell’aula del tribunale, a Roma, tornano i giorni del colpo di stato in Cile. È in corso il processo Condor. Così veniva chiamata la rete criminale, a guida Cia, con la quale le dittature latinoamericane degli anni ’70–80 si sono scambiati i favori in un turpe mercato: uccidere gli oppositori ovunque si trovassero, oltre leggi e frontiere, e con il supporto delle reti fasciste. Anche in Italia e in Spagna. L’Operazione Condor fu un piano ordito dal generale cileno Augusto Pinochet, che ha fatto scuola alle dittature dell’Argentina, del Brasile, del Paraguay, dell’Uruguay e della Bolivia. E, di recente, dagli archivi desecretati negli Usa, si è scoperto che anche l’Ecuador è stato interessato dal Condor. E in Venezuela, benché vi fosse una democrazia voluta da Washington, ha lavorato come torturatore di guerriglieri e per conto degli Usa l’anticastrista Posada Carriles.
Sotto gli artigli del Condor finirono anche 20 italiani. I loro presunti assassini sono ora sotto processo nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia a seguito di una lunga indagine iniziata nel 1999 dal magistrato Giancarlo Capaldo per crimini di lesa umanità, e messa in moto dalle associazioni dei famigliari.
Sotto processo sono 32 ex membri delle giunte militari di quegli anni: uno della Bolivia, quattro del Perù, 11 del Cile e 16 dell’Uruguay. In questi giorni, è stata la volta dei militari cileni e dei testimoni venuti apposta per deporre. Tra questi, c’erano anche alcuni sopravvissuti all’assalto del Palazzo della Moneda, dove Allende ha resistito fino all’ultimo prima di suicidarsi. Intorno a lui, c’era la squadra dei Gap, a protezione del presidente.
La mattina dell’11 settembre, dopo aver sparato dal tetto contro gli assalitori, hanno cercato di portare in salvo il presidente, ma senza riuscirci. Fra loro c’era anche Juan Montiglio, primo ufficiale dei Gap, ucciso dalle raffiche e poi dilaniato con le bombe.
Montiglio, nome di battaglia Anibal, era di origine italiana. In Aula lo hanno ricordato la moglie Rina Belvederessi e la figlia Tamara. Rina e uno dei pochi sopravvissuti, Juan Ossess, hanno ricordato la figura di Anibal e il sacrificio dei Gap, uccisi sul bordo di una fossa comune.
In aula, le testimonianze hanno ricostruito gli ultimi istanti della vita del presidente Allende. I golpisti gli avevano telefonato, offrendogli un aereo per riparare all’estero. Allende aveva però rifiutato urlandogli: «Traditori». Poi aveva stretto la mano a tutti i ragazzi dei Gap e si era sparato.
Su 50 Gap, tra i 20 e i 25 anni, restano solo alcuni sopravvissuti, uno vive a Santiago, un altro in Grecia. Vennero sterminati durante l’assalto alla Moneda, ma lo scempio è continuato anche dopo la morte. Quattro anni dopo, nel ’77, il regime di Pinochet riportò in luce la fossa comune e le ruspe gettarono a mare i resti. Nel 2000 vennero recuperati e 11 di loro vennero riconosciuti attraverso gli esami del Dna.
Juan Montiglio, di padre piemontese, invece, non venne riconosciuto e per lui non è stata ancora fatta giustizia in Cile.
Per identificarlo, occorrerebbe trovare la madre che lo aveva messo al mondo in una relazione fuori dal matrimonio, il 24 giugno del 1947, una donna che potrebbe avere il cognome Venezia. E siccome il dna mitocondriale si ricava da quello della madre, il problema resta ancora irrisolto.
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