Solo chi perde è un traditore

Non si considera mai sleale il vincitore se cambia posizione al momento giusto

Infinite sono le leggi che regolano lo studio del tradimento nella storia. Ma due sono superiori alle altre. La prima: chi vince non verrà mai considerato un traditore. La seconda: il tradimento è questione di date, ciò che oggi è considerato un tradimento, domani potrà essere tenuto nel conto di un atto coraggioso. In principio a tradire sono stati Palamede (nel mito riconducibile a Omero) e Tarpea (in quello romano riferito da Tito Livio). Palamede, re dell’isola di Eubea, costringe Ulisse a partire per la guerra di Troia smascherandone la finta pazzia. Per vendicarsi, tempo dopo, Ulisse lo farà apparire come un traditore al cospetto di Agamennone, portando come prova una falsa lettera di Priamo, re di Troia. Il sovrano di Eubea verrà condannato e messo a morte sulla base delle prove artefatte prodotte da Odisseo. Interessante la circostanza che il primo, all’inizio del mito e della storia, a cui è stato imputato un tradimento, sia un uomo accusato ingiustamente. Talché Socrate, al momento di morire, vorrà ricordare proprio Palamede come esempio di ingiustizia travestita da giustizia. Tarpea è la figlia del guardiano del Campidoglio che si rende disponibile, in cambio di gioielli, ad aprire le porte della cittadella ai sabini ansiosi di riprendere le loro donne rapite con il celebre ratto. Ma il re dei sabini Tito Tazio, una volta ottenuto quel che voleva, la fa uccidere. Strana storia. Nel libro I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma (Feltrinelli), Eva Cantarella riferisce di una seconda versione della leggenda, secondo la quale Tarpea avrebbe attirato i sabini in una trappola e per questo Tazio l’avrebbe fatta uccidere. Sarebbe stato dunque per gratitudine che i romani avrebbero dato il nome della ragazza alla rupe da cui venivano fatti precipitare i traditori. Anche qui, un curioso capovolgimento di senso alle origini del mito.
È a questa categoria di uomini e donne che Marcello Flores ha dedicato lo straordinario libro Traditori. Una storia politica e culturale , di imminente uscita per i tipi del Mulino. È una storia del tradimento dalle origini della storia fino al primo grande conflitto mondiale. A partire dalla guerra del Peloponneso, che si concluse con la sconfitta di Atene dopo che nel corso di ventisette anni furono consumati «ventisette tradimenti pubblici». Il più celebre dei quali fu quello di Alcibiade in un interminabile andirivieni tra Atene e Sparta provocato da false accuse che gli erano state mosse alla vigilia della partenza di una spedizione, da lui guidata, alla volta della Sicilia. Prima di allora c’erano stati però due casi clamorosi dell’ambiguità che avvolge le accuse di tradimento. Milziade, vincitore di Maratona (490 a.C.), che muore in carcere dopo essere stato ingiustamente accusato di aver ordito trame assieme ai nemici. E Temistocle, il costruttore della grandezza navale ateniese, l’artefice della vittoria di Salamina (480 a.C.), indotto al suicidio per aver cercato, assieme a Pausania, un accordo «politico» con la Persia.
Il fatto è che in Grecia, come ha messo in risalto Anton-Hermann Chroust, i politici avrebbero preferito vedere «la perdita dell’indipendenza nazionale a vantaggio di una potenza straniera» piuttosto che assistere al trionfo della fazione avversa: la nozione di patriottismo «sembra essere animata da una cieca lealtà partigiana, piuttosto che da una fedeltà patriottica alla città o da un attaccamento alla costituzione esistente e alle leggi approvate». Non va poi dimenticato, scrive Flores, che, «senza entrare nel dibattito storiografico sull’eredità di Pericle, sull’efficacia del suo progetto democratico, sulla deriva populista con cui caratterizzò il proprio dominio», ad aprire la strada all’uomo simbolo della democrazia greca fu proprio l’accusa di tradimento rivolta al suo avversario Cimone. Quel Cimone condannato all’ostracismo per aver cospirato con Sparta ai danni della città e, in conseguenza di ciò, esiliato per ben dieci anni.
Il tradimento, come hanno mostrato oltre agli studi sociologici anche quelli filosofici e giuridici, è spesso «una percezione soggettiva, un evento relativo e non assoluto, perché dipende da una relazione congiunturale in un contesto particolare e perché appare tale quando le dinamiche di potere si sono concluse e manifestate». Ragion per cui, scrive Flores, «chi vince non è mai un traditore» (come si era detto all’inizio). Una prova? Quello che ad ogni evidenza appare come «il primo esempio di un colossale tradimento collettivo — la guerra d’indipendenza delle colonie americane dalla Gran Bretagna — in nessun libro di storia potrà essere giudicato come tale». Nel corso dei tempi, l’attributo di traditore è stato dato, elenca Flores, «agli apostati, agli eretici, ai convertiti, ai rinnegati, ai transfughi, agli ammutinati, ai disertori, alle spie, agli informatori, alle quinte colonne, ai collaborazionisti, ai ribelli, ai rivoluzionari, ai terroristi, ai voltagabbana, ai pentiti, ai crumiri; per non parlare degli infedeli e degli adulteri all’interno della sfera privata».
Si tradisce, ha scritto Gabriella Turnaturi in Tradimenti. L’imprevedibilità nelle relazioni umane (Feltrinelli), «se stessi, i parenti, gli amici, gli amanti. La patria. Si tradisce per ambizione, vendetta, leggerezza, per affermare la propria autonomia, per cento passioni e cento ragioni». Il traditore, ha specificato Giulio Giorello in Il tradimento. In politica, in amore e non solo (Longanesi), è «chi illude gli altri e magari se stesso grazie alla capacità di varcare ogni limite sfidando natura e fortuna, o addirittura la volontà divina», investendo «la cosmologia, perché mira a squassare l’intero universo; la politica che è la sua nicchia d’elezione; la teologia perché non esita a coinvolgere Dio; la metafisica, ove il tradimento svela le strutture profonde, sottostanti alla superficie delle apparenze; l’etica, che dal tradimento viene plasmata, ora resistendovi, ora inglobandolo in un processo incessante di chiarificazione della mente; l’arte, poiché tradire è insieme un evento del mondo e uno stato dell’anima». In realtà, precisa Flores, «l’idea di tradimento, la percezione e il giudizio che ne danno i contemporanei e i posteri, cambia più profondamente di quanto non ci dicano le definizioni filosofiche, le formalizzazioni giuridiche, le tipologie costruite dai modelli sociologici».
Il Medioevo è un momento di grande rielaborazione del tema del tradimento. Dal dibattito sulla figura di Giuda che ha consegnato Cristo ai romani e che inizia ad essere discussa in una luce nuova (la sua missione sarebbe stata quella di rendere possibile il disegno di Gesù) a quella di Ganelon (Gano di Maganza), l’uomo che tradisce Rolando mettendosi d’accordo con il re saraceno Marsilio alla vigilia della battaglia di Roncisvalle (778) e che sostiene di essere stato tradito a sua volta nel momento stesso in cui era stato inviato in missione presso il sovrano dei mori.
Anche la storia della nascita delle nazioni, in particolare Inghilterra e Francia, è costellata di tradimenti. La lesa maestà — nelle forme codificate dalla legge di Edoardo III del 1351 — resta l’essenza del tradimento, ma con gli anni — dalla seconda metà del Cinquecento — sempre più la maiestas si viene a identificare «con l’astratto corpo sociale rappresentato dal sovrano, e cioè lo Stato o la patria, piuttosto che con la persona del re». Un nuovo grande cambiamento avviene verso la metà del Settecento, «quando il tradimento della fedeltà al sovrano e della lealtà dinastica è sostituito un po’ alla volta dal richiamo alla fedeltà alla nazione e alla lealtà verso la Costituzione». Il tradimento, abbiamo visto, è la rottura del patto di lealtà che ci unisce alla nostra comunità e alle sue istituzioni simboliche e rappresentative. Questa «infedeltà», scrive Flores, ha una valenza universale che si ritrova, «pur con molte varianti», nei secoli. La grande «diversità con cui il tradimento è stato percepito, vissuto, condannato e utilizzato, dipende da contesti storici diversi, da istituzioni profondamente diseguali, da legislazioni differenti». Quello che cambia di più, in ogni situazione, «è il senso di appartenenza e di identità che prevale nelle comunità in cui ha luogo il tradimento, è la valutazione del reato che ne danno le istituzioni e le leggi, è il senso di partecipazione e di coinvolgimento dei cittadini, del popolo e della pubblica opinione». Gli ultimi trent’anni del Settecento rappresentano, per lo meno nella storia dell’Occidente, «un momento di rottura profonda e permanente, tanto da costituire tradizionalmente l’inizio della storia contemporanea». È il periodo in cui si affaccia la cultura dei diritti che l’Illuminismo sta diffondendo, in cui comincia a precisarsi l’idea di nazione, in cui il capitalismo e la borghesia muovono i primi passi, «in una convergenza che porta a ribaltare quello che verrà chiamato l’antico regime e a creare nuovi legami, nuove comunità e, di conseguenza, nuove lealtà e nuove fedeltà». Ma anche «nuovi tradimenti» o «tradimenti di tipo nuovo». È negli ultimi vent’anni del Settecento che l’idea di tradimento conosce «una trasformazione profonda, si rinnova e si articola secondo modelli, percorsi politici e giuridici che si svilupperanno ulteriormente dell’Ottocento».
A segnare questa svolta sono «le grandi rivoluzioni che accompagnano la nascita degli Stati Uniti e la vittoria della Repubblica in Francia, perché è da questo momento che la fedeltà non è più indirizzata al sovrano, a un’entità individuale, ma riguarda la collettività, serve a costruire e a rafforzare il “noi”, il gruppo e la comunità cui si sente di appartenere e che l’emergere dello Stato-nazione moderno rende sempre più forte ed esigente». Alla fine del Settecento si assiste ad una drastica trasformazione del tradimento e a una vera rottura nella sua definizione giuridica e politica. È in questo periodo, a cavallo delle due grandi rivoluzioni che aprono l’epoca contemporanea — quella americana e quella francese —, «che il concetto di lealtà e di fedeltà muta significato perché cambia l’oggetto cui fa riferimento». E qui giova ricordare la definizione (di cui all’inizio) data nel 1815 da Charles-Maurice de Talleyrand: «Il tradimento è una questione di date». Niente come queste sette parole può spiegare come da questo momento, all’indomani della definitiva sconfitta di Napoleone, «sia il potere che vince o si rafforza a dettare la norma, cogente e inappellabile».
Nella prima metà dell’Ottocento, prosegue Flores, « le accuse e i processi di tradimento sono quasi sempre strettamente collegati a tentativi, reali o presunti, di cospirazione contro il potere esistente». Ed è così fino al 1848. La nuova definizione legislativa del reato di tradimento, avvenuta nel Regno Unito proprio nel 1848, «sancisce definitivamente l’identificazione tra la volontà di rovesciare il governo e il muovere guerra alla regina, tra sedizione politica e progettazione della morte del sovrano». Ma questo «avviene di fatto depotenziando la sacralità della figura monarchica e riducendola a simbolo di ogni attacco contro le istituzioni, la costituzione, il governo». Poi, «pur nell’ovvia e profonda diversità tra un regime liberale (quello britannico o statunitense), un regime rivoluzionario autoritario (quello francese) e un regime autocratico e assolutista (quello russo, austriaco, prussiano), il reato di tradimento si configura sempre più come lo strumento principale di una lotta politica senza esclusione di colpi contro le opposizioni: che hanno in un caso carattere politico, sociale o ideologico, nell’altro i tratti della protesta liberale e nazionale».
Con l’avvento del XX secolo la patria «assume l’immagine totalizzante della lealtà che si deve alla propria comunità e della fedeltà che si deve al proprio Stato e alle proprie istituzioni». Da allora, ha scritto Raymond Aron, «i traditori assumono la figura classica con cui li raffigura l’immaginazione popolare: l’ufficiale di marina che trasmette dei segreti ai servizi di spionaggio di una potenza straniera non può agire che per motivi disprezzabili; il traditore oggettivo è, al tempo stesso, un traditore soggettivo, non sembra più concepibile una situazione in cui un uomo possa mettersi contro la propria patria per motivi nobili». Almeno fino al Novecento, quando — come ha ben documentato il libro di Phillip Deery e Mario Del Pero Spiare e tradire (Feltrinelli) — saranno in molti a contraddire la parte finale dell’enunciato di Aron, in ragione della loro militanza comunista.
Quando poi inizia la Prima guerra mondiale, si è costretti a prendere atto del fatto che la lealtà a una dinastia non avrebbe più senso. Re e imperatori sono strettamente imparentati tra loro: Nicola II di Russia e Giorgio V d’Inghilterra sono cugini, così come lo stesso Giorgio V e il kaiser Guglielmo II, nipote della regina Vittoria e cugino della moglie dello zar, Alexandra, anche lei nipote della regina inglese. Sono gli stessi sovrani a cercare un’identità nella propria nazione piuttosto che nella famiglia di provenienza. I tradimenti che hanno costellato il Sette e l’Ottocento, «da quello contro le autocrazie e la dittatura a quelli per ottenere libertà e democrazia, da quelli per conquistare il potere a quelli per cambiare il governo e la costituzione, da quelli per raggiungere l’indipendenza a quelli per difendersi dall’arbitrio coloniale, sono rientrati un po’ alla volta nel cono d’ombra della sovversione, della ribellione, della rivoluzione, per poterli meglio combattere e punire». Con la Prima guerra mondiale, infine, «inizia un altro percorso, anch’esso accidentato e complesso, in cui il termine stesso amplierà e restringerà il suo significato a seconda della temperie storica e culturale e della contingenza politica, ideologica, militare». Di lì prenderà inizio un tradimento di tipo nuovo, quello novecentesco, condizionato in maniera determinante dalle ideologie. E, in quanto tale, del tutto diverso da quello dei due o tremila anni precedenti.

You may also like

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password