Don Men­nini: «Pronti dieci miliardi per liberare il leader Dc»

Riem­pire le casse bri­ga­ti­ste con una cifra all’epoca enorme, desti­nata a tra­sfor­marsi poi in armi e basi, in morti e feriti, quello si poteva fare. Anche l’ostacolo a una trat­ta­tiva reale Men­nini lo ha indi­cato aper­ta­mente: il Pci non voleva

Una delle grandi leg­gende del caso Moro si è pre­sen­tata ieri di fronte alla com­mis­sione par­la­men­tare d’inchiesta che di nuovo indaga. Don Antonello Mennini, nun­zio apo­sto­lico in Uk, all’epoca dei fatti con­fes­sore di Aldo Moro. Non un pre­tino qual­siasi: figlio del vice­pre­si­dente dello Ior, fami­glia da sem­pre di rango ele­vato nell’aristocrazia vati­cana. Cos­siga sospet­tava che le Br lo aves­sero fatto entrare nel «car­cere» di via Mon­tal­cini, per con­fes­sare e dispen­sare estrema unzione. Alcune righe delle let­tere del seque­strato, ambi­gue, auto­riz­za­vano il dub­bio che qual­cuno facesse avanti e indie­tro dal car­cere del popolo, anche prima del fatale 9 mag­gio. La vul­gata die­tro­lo­gica voleva Men­nini scom­parso subito dopo il fat­tac­cio: indi­zio rile­vante. Lui stesso ha pre­ci­sato: «Sono già stato audito sette volte, in sede giu­di­zia­ria e parlamentare».

Men­nini ha smen­tito tutto: «Mai stato lì». Mai con­fes­sato il rapito: «Ne sarei stato molto con­tento. Non ne ho avuto la pos­si­bi­lità». Potrebbe men­tire, tutto è pos­si­bile. ma che un’organizzazione osses­sio­nata dalla sicu­rezza e rigi­da­mente com­par­ti­men­tata come le Br facesse entrare estra­nei nel luogo più ricer­cato d’Italia, que­sto sfiora l’impossibile.

Ma qual­cosa l’ex con­fes­sore dice: non segreti, non ele­menti ignoti. Piut­to­sto quel che chi cono­sce la vicenda già sa ma che al grande pub­blico è meglio non far arrivare.

Il nun­zio ha par­lato dei 10 miliardi di lire che Paolo VI inten­deva offrire in cam­bio della libe­ra­zione del suo amico. Non lo faceva di nasco­sto. Andreotti, il fermo, gli dava tutte e due le mani per rac­co­gliere il gruz­zolo. I diri­genti del Pci, i fer­mis­simi, erano pronti. «Sia chiaro, pro­te­ste­remo e denun­ce­remo, però in con­creto non faremo niente», aveva garan­tito Pec­chioli, l’uomo che teneva i con­tatti col Vimi­nale nei 55 giorni.

Lo Stato che non trat­tava dun­que trat­tava. Ammet­tere in tv che le Br non erano una banda di taglia­gole ani­mata da sete di san­gue ma un’organizzazione poli­tica, sia pur cri­mi­nale, quello mai. Riem­pire le casse bri­ga­ti­ste con una cifra all’epoca enorme, desti­nata a tra­sfor­marsi poi in armi e basi, in morti e feriti, quello si poteva fare. Anche l’ostacolo a una trat­ta­tiva reale Men­nini lo ha indi­cato aper­ta­mente: il Pci non voleva, i sin­da­cati non per­met­te­vano. In ballo non c’era la sal­vezza della demo­cra­zia, ma una crisi di governo.

Sono que­sti i misteri del caso Moro, e forse anche altri. Pare cre­di­bile che ai ver­tici dello Stato e della Dc qual­cuno fosse con­vinto, alla vigi­lia dell’epilogo che una trat­ta­tiva fosse in corso. Non era vero. Nes­sun ele­mento auto­rizza a pen­sare che le Br ne sapes­sero qual­cosa. Ma il mal­loppo in gioco era allet­tante, e gli avvol­toi non man­ca­vano certo.

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