La grande guerra. I limiti del «nazionalismo metodologico» nella ricerca storiografica. Due volumi sul primo conflitto mondiale evidenziano le sue conseguenze nella elaborazione di una «identità europea»
C’è un aspetto che emerge, tra i molti, nella grande costellazioni di elementi che connotano la prima guerra mondiale ed è la sua dimensione di scala. Non è solo un fatto quantitativo ma anche qualitativo. Anzi, chiama in causa, quanto meno se si vogliono coglierne gli effetti di lungo periodo, soprattutto il secondo fattore. La qualità, in questo caso, rinvia alla natura dei processi di istituzionalizzazione del ricorso alla forza di massa, quella che connotò cinque anni di dissanguanti combattimenti ma anche un lungo periodo successivo, quando il tempo della prevaricazione perdurò, tracimando negli anni successivi e disintegrando una parte importante dei dispositivi di mediazione politica che le società liberali avevano edificato dal secondo Ottocento in poi.
Più in generale, ciò che mutò fu la gerarchia dei ruoli sociali e delle priorità politiche, portando al risultato di una «Global War» che, come tale, non si concludeva sui campi di battaglia, quando l’ultimo colpo di fucile o di atiglieria era stato sparato. Fatto che implica la comprensione di quella che per gli italiani è stata intesa come la Grande guerra soprattutto in quanto oggetto di studio transnazionale. Sempre meno potremo quindi raccontarci quella fenditura da un punto di vista nostrano, dovendo procedere piuttosto sul piano della lettura intrecciata con le narrazioni storiografiche e con i depositi memorialisti che ci derivano dagli altri Paesi chiamati in causa.
I quattro versanti della ricerca
Evitiamo, dunque, di recitare una obbligata giaculatoria sui «ritardi» o sulle «omissioni», poiché molta strada è stata invece fatta dalla ricerca, riuscendo, almeno parzialmente, a coniugare i quattri versanti prioritari del lavoro storiografico: la storia diplomatico-militare, quella politica, la storia sociale ed infine quella culturale. Il come riusciremo ad alimentare un meccanismo ad incastro, che tenga insieme queste diverse declinazioni, ci dirà della capacità di comprendere il fenomeno bellico, e i suoi cascami politici di lungo periodo nella costituzione dell’identità europea contemporanea. Soprattutto se rapportata alle tentazioni, adesso reviviscenti, di dare fiato ad antagonismi particolaristi dinanzi alla crisi delle sovranità nazionali.
Torniamo tuttavia all’oggetto di analisi, la Prima guerra mondiale. Avviatasi come un conflitto tradizionale, ovvero localizzato in una regione precisa, legato perlopiù a logiche predatorie e spartitorie prevedibili nei loro moventi così come nei risultati che da esse sarebbero dovuti derivare, destinato quindi a svolgersi secondo indirizzi operativi ritenuti certi, ben presto, invece, sfuggì di mano ai protagonisti. Fu la cerchia stessa dei partecipanti ad assumere una dimensione che, per l’epoca, non si era ancora vista. Poiché ad essere chiamate in causa erano nazioni che da tempo costituivano (o ambivano ancora a costituire) imperi coloniali, fatto che diede da subito una cornice sovra-europea al confronto militare. Ma quelle stesse entità imperiali, chiamando a raccolta le popolazioni subalterne, variamente utilizzate come combattenti o nello sforzo bellico che si compiva nelle retrovie, innescarono processi dai quali ne sarebbero uscite seccamente ridimensionate.
L’evoluzione del conflitto, infatti, si misurò non solo sui teatri di combattimento ma anche e soprattutto nelle infinite retrovie, che si estendevano per orizzonti spazialmente infiniti e socialmente indefiniti. Fu guerra mondiale anche per questo, chiamando in causa, nella spasmodica mobilitazione di donne, uomini e risorse d’ogni genere quanti, altrimenti, ne sarebbero rimasti fuori o almeno un passo indietro. E se ciò che precede il conflitto innescatosi nel 1914 è anche e soprattutto storia del colonialismo che si fa impresa imperialista, quel che ne segue, non nel 1918 ma a partire già dal 1917, con la frattura rivoluzionaria russa, è un rivolgimento di quel processo di «nazionalizzazione delle masse» che sfugge al controllo delle classi dirigenti liberali, trasformandosi in qualcosa d’altro.
Non è un caso, quindi, se il novembre del 1918 non sancisca la conclusione definitiva del conflitto armato, traducendosi semmai in una pluralità di guerre civili, in un fenomeno di proliferazione e disseminazione di esse nelle terre di confine, così come nelle aree contese, che avrebbero attraversato con ferocia soprattutto l’Europa orientale fino alla prima metà del decennio successivo. Queste ultime avrebbero inoltre segnato il destino non solo delle popolazioni che ne vennero coinvolte ma, in immediato riflesso, di quanti ne furono anche solo spettatori, reintroducendo, dopo le vicende del 1848 e, soprattutto, i fatti della Comune di Parigi, il nesso tra guerra voluta e condotta dai militari e sollevazione spontanea dei civili.
Gli equilibri infranti
La nostra modernità si reinventa in quello spazio e in quel tempo, così come si invera il comunismo, non come partito (e dottrina) del confronto armato permanente ma in quanto soggetto della trasformazione repentina, rompendo quegli argini del parlamentarismo dentro i quali, invece, le forze socialiste si erano progressivamente incuneate, fino a rimanerne del tutto imprigionate. La nozione di violenza assume in tale frangente un significato completamente differente da quello antecedentemente attribuitole, e il lungo dopoguerra, di cui i fascismi capitalizzeranno gli interessi, raccoglie questo mutamento antropologico, per condurre, passo dopo passo, il continente europeo verso un’altra catastrofe, vent’anni dopo.
Questo ed altro ancora viene in mente leggendo due volumi recenti, usciti in occasione del fiacco e scialbo centenario, pallidamente celebrativo, del nostro intervento nella Prima guerra mondiale. Stiamo parlando di un libro a più voci, diretto da Nicola Labanca, il Dizionario storico della Prima guerra mondiale (Laterza, pp. 498, euro 28), che si avvale di una quarantina di collaborazioni, nonché del testo di Antonio Gibelli, La Grande guerra. Storie di gente comune, 1914–1919 (Laterza, pp. 328, euro 20). Due opere diverse ma per più aspetti intersecate, ancorché inconsapevolmente.
Nel divenire degli eventi
La prima ci offre un dettaglio selezionato dello stato di evoluzione della storiografia, a partire da quella italiana. Un congruo numero di voci, curate da professionisti del settore, copre le principali aree tematiche che rimandano al conflitto. La seconda, invece, raccoglie e rielabora la guerra per come venne vissuta e raccontata da chi fu costretto a combatterla, oppure ad assistere ad essa, gli uni e gli altri accomunati da una condizione di crescente espropriazione del significato degli eventi e, in immediato riflesso, della loro riconducibilità ad una razionalità quotidiana che non fosse quella della semplice logica di sopravvivenza. Se Labanca dà voce all’analisi a distanza, meditata, ossia affidata ad una nuova generazione di studiosi, Gibelli la offre ad alcuni dei protagonisti del mentre, attraverso una lettura incrociata (e critica) delle testimonianze scritte dei combattenti di allora.
Nell’uno e nell’altro caso emerge comunque la consapevolezza, maturata in milioni di individui, di essere improvvisamente legati tra di loro, ancorché divisi in fronti opposti. Il conflitto si presenta come una immensa rete, senza fine o conclusione possibile (e presto anche senza un fine razionale), dove l’esistenza individuale, e lo stesso significato della vita, vengono schiacciati all’interno di una intelaiatura che si regge da sé, in un conflitto dove l’unica certezza acquisita è la percezione del movimento inerziale degli eventi. Spaesamento, spiazzamento, disincanto (per coloro che avevano voluto invece credere nella guerra come opportunità per accelerare i tempi di un qualche cambiamento) sono quindi moneta comune nelle cose allora scritte e dette a viva voce, negli infiniti colloqui in trincea così come ovunque vi fosse l’eco immediata delle armi. La questione della dimensione epocale del confronto armato si intreccia quindi con il superamento della separazione tra la sfera militare e quella civile, attuata con il regime delle mobilitazioni di massa, che coinvolsero non solo quanti furono inviati a combattere in immensi carnai ma anche quelle comunità nazionali, che rimasero intrappolate dentro il gigantesco circuito del «fronte interno».
Carne della civilizzazione tecnica
Dai due libri escono quindi ritratti a tinte forti, molto curati sul piano delle fonti e della loro lettura critica. Soprattutto, le storie infinite che ci vengono così restituite rendono omaggio non solo di un’umanità che resiste con le poche risorse che ha concretamente a disposizione, ma anche della prima, gigantesca prova alla quale quegli stessi uomini e quelle medesime donne furono sottoposti, la percezione che la civiltà industriale contemplava non solo lo sfruttamento attraverso il lavoro ma la scarnificazione sui campi di battaglia. Un’immensa officina della civilizzazione tecnica, come già Antonio Gibelli aveva avuto modo di rilevare in un’altra sua importante opera, dove la morte è una presenza costante, tanto selvaggia quanto «razionale».
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