«Il nuovo spirito del capitalismo» di Luc Boltanski e Ève Chiapello per Mimesis. Finalmente pubblicato il volume salutato come uno dei più rilevanti sul lavoro contemporaneo. Il libro presenta la provocatoria tesi dove la prassi artistica è un’attitudine da usare per innovare la produzione di merci
Il libro di Luc Boltanski e Ève Chiapello Il nuovo spirito del capitalismo ha avuto un buffo destino in Italia. Pubblicato nel 1999 in Francia, fu allora salutato come un contributo rilevante nella comprensione delle nuove caratteristiche del capitalismo contemporaneo forte di una provocatoria tesi: la capacità delle imprese di mettere a profitto, per definire nuovi processi lavorativi, la critica all’organizzazione gerarchica del lavoro espressa durante il maggio studentesco del Sessantotto. Tesi che fece discutere non poco le «scienze sociali» europee, che sottolineavano tuttavia la sostanziale continuità del capitalismo «digitale» con il suo passato industriale a differenza di quanto sostenevano i due autori francesi. In Italia il libro fu accolto con interesse da economisti, filosofi e sociologi, dando vita nel nostro paese una discussione ad alta intensità polemica, cosi come era accaduto in altri paesi. Ma era tuttavia una discussione relegata in ristretti campi disciplinari. Quando Feltrinelli annunciò la sua traduzione, in molti salutarono con favore questa decisione della casa editrice milanese.
Anno dopo anno, la sua pubblicazione fu però rinviata. I motivi dei rinvii possono essere rintracciati nel linguaggio non sempre lineare del saggio, ma soprattutto nello scoprire che molti dei temi affrontati da Boltanski e Chiappello erano nel frattempo entrati in quel senso comune che contraddistingue sempre la manifestazione dell’opinione pubblica. Ma a far desistere Feltrinelli nel pubblicarlo può aver influito il fatto che la ricezione del «nucleo centrale» de Il nuovo spirito del capitalismo — il Sessantotto come periodo fondante del capitalismo digitale — sia diventata nel chiacchiericcio mediatico l’avvio di una demonizzazione «di sinistra» del Sessantotto, relegato a catalizzatore del nascente neoliberismo, sia nella sua versione presentabile — gli Stati Uniti — che in quella «volgare», il berlusconismo e il populismo postmoderno.
L’antistatalismo libertario
Per gli Stati Uniti è stata sottolineata l’influenza della controcultura nello sviluppo dell’economia dot-com. L’etica dominante nel capitalismo digitale, è stato più volte scritto, è figlia della critica al «sistema» espressa dal mouvement degli anni Sessanta, mentre l’attitudine hacker è cresciuta all’ombra dei gruppi libertari californiani.
Una lettura, questa, che ha molte frecce nel suo arco nel tratteggiare la genealogia dell’industria high-tech. Meno convincenti sono stati invece i pamphlet che hanno visto nella critica sessantottina all’autoritarismo e al ruolo dello Stato, in quanto tecnologia del controllo sociale, un antenato dell’antistatalismo neoliberista. Il Sessantotto altro non sarebbe stato che il laboratorio teorico e sociale per una «controrivoluzione liberista» attivata proprio dal movimento. Ma qui ribelli, i partecipanti a quel movimento erano solo l’incarnazione dell’individuo proprietario. Sintomatico di tale furia iconoclasta contro il Sessantotto è il giudizio di Michel Foucault come teorico mimetico del neoliberismo. Una demonizzazione che non ha risparmiato altri intellettuali ritenuti, a torto o a ragione, simboli di quella stagione di sovversione sociale. L’aspetto ricorrente è che molte delle critiche vengono da intellettuali e opinion makers che non hanno problemi a rivendicare la propria adesione alla tradizione terzointernazionalista o maoista del movimento operaio. Non sono mancati, in tutti questi anni, aspetti paradossali: per esempio, il giudizio su analisi critiche del capitalismo digitale o postfordista come espressione di una quinta colonna del nemico tra le file dei movimenti sociali, evocando così un lessico politico che non avrebbe certo sfigurato nel diamat staliniano degli anni Trenta.
Sta di fatto che solo ora la casa editrice Mimesis ha deciso di mandare il saggio di Boltanski e Chiapello in libreria (pp. 728, euro 38). Una decisione meritoria non solo per aggiungere un tassello a un ipotetico mosaico della storia delle idee del declinante Novecento, ma perché consente di ricostruire il percorso accidentato che ha portato ad innovare l’analisi del capitalismo.
Boltanski e Chiapello considerano il Sessantotto un punto di svolta nei rapporti sociali. L’intero assetto fuoriuscito dalla seconda guerra mondiale viene sottoposto a critica dai movimenti sociali. L’intervento statale in economia ha certamente attenuato gli effetti collaterali del libero mercato, ma non aperto nessuna breccia nel capitalismo. Le misure keynesiane per lo stato imprenditore hanno semmai rafforzato la società del capitale, garantendo una politica moderata negli aumenti salariali, attraverso un vero e proprio scambio con le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio: conflitto sociale a bassa intensità, aumenti salariali legati alla produttività in cambio di assistenza sanitaria, accesso alla formazione scolastica, pensioni.
La politica dei diritti sociali di cittadinanza poteva variare a seconda dei contesti nazionali, ma era un fattore di stabilizzazione sociale. Sono stati i gloriosi trenta anni di sviluppo economico, ora amaramente rimpianti dal pensiero politico democratico e riformista. Nel Sessantotto ne viene criticato il carattere autoritario che impedisce la possibilità di una trasformazione radicale dei rapporti sociali.
I due autori di questo ponderoso saggio sottolineano invece il fatto che l’ordine del discorso nel Sessantotto vede — ad esempio, nella produzione artistica e nel superamento dell’alienazione della società dei consumi attraverso la libera espressione del desiderio — dimensioni politiche che mettono in discussione il capitalismo. È dunque la creatività, l’attitudine artistica che può consentire una efficace e efficiente politica del fattore umano nelle imprese, mentre nella società il rifiuto dell’autorità può favorire fenomeni innovativi tanto nella produzione di merci che nelle relazioni sociali. Il nuovo spirito del capitalismo trova in questa immanenza della critica all’autorità la sua fondazione. È proprio in tale linearità tra Sessantotto e neoliberismo uno dei limiti più evidenti de Il nuovo spirito del capitalismo.
Il mercanti del fattore umano
È spesso accaduto che istanze del movimento operaio o dei movimenti sociali radicali siano entrate a far parte dell’agenda politica di chi esercita il potere. Antonio Gramsci ha scritto a lungo della «rivoluzione passiva», cioè quando le classi dominanti hanno cambiato di segno a rivendicazioni, punti di vista dei «dominati» per farle diventare parte integrante e compatibili con i nuovi rapporti di potere definiti dopo una fase di crisi — poco importa se economica o politica -; oppure ci sono stati autori che hanno spiegato l’innovazione delle relazioni sociali come risposta ai conflitti sociali e di classe. Nel volume di Boltanski e Chiapello, ad esempio, la critica all’alienazione e alla parcellizzazione del lavoro è stata piegata all’innovazione della organizzazione produttiva. Il management del fattore umano è da considerare quindi un dispositivo teso a riprendere il controllo di un lavoro vivo ribelle all’ordine costituito nell’impresa.
Questo avviene sempre come superamento di una crisi o quando vanno ripristinati i rapporti di forza nella società dopo un periodo di aspro e radicale conflitto sociale e di classe. Il volume di Boltanski e Chiapello rimuove questo elemento «politico» e fa germogliare il nuovo spirito del capitalismo dal fluire neutro delle dinamiche sociali e culturali. È il suo limite maggiore. Il suo merito è di aver messo a tema la necessità per le scienze sociali di indagare come il capitalismo stava cambiando, all’interno di una dinamica che alterna «dialetticamente» discontinuità a continuità con il suo passato.
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