Il sottotitolo «vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re» spiega il saggio di Paolo Pasi, (Ho ucciso un principio, Elèuthera, pp. 175, e 14) che ricostruisce con rigore documentario e vivacità narrativa il regicidio avvenuto la sera del 29 luglio 1900, nei pressi della Villa Reale a Monza, da parte di Bresci, nativo di Coiano (frazione di Prato), giunto apposta da Paterson, una cittadina poco distante da New York, dove viveva con altri anarchici (nel disegno).
Il sottotitolo «vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re» spiega il saggio di Paolo Pasi, (Ho ucciso un principio, Elèuthera, pp. 175, e 14) che ricostruisce con rigore documentario e vivacità narrativa il regicidio avvenuto la sera del 29 luglio 1900, nei pressi della Villa Reale a Monza, da parte di Bresci, nativo di Coiano (frazione di Prato), giunto apposta da Paterson, una cittadina poco distante da New York, dove viveva con altri anarchici (nel disegno). I tre colpi di rivoltella vanno a segno; ma appena i carabinieri lo bloccano, Bresci non smette di ripetere: «Ho agito da solo, l’ho fatto per vendicare le vittime pallide e sanguinanti di Milano», quelle uccise nel 1898.
Questa tesi («non ho ucciso un uomo, ma un principio») Bresci non la ribadirà solo durante il processo, svoltosi in agosto e conclusosi con la condanna all’ergastolo, e «i primi sette anni di segregazione cellulare». Continuerà a ripeterla anche dopo essere stato trasferito in cella d’isolamento nell’isola di Santo Stefano, vicino a Ventotene. Il racconto che Pasi dedica a come Bresci passava le giornate è spietato: «Ferri, catene, pasti minimi, mutismo assoluto, luce dei controlli anche di notte, sonni brevi e spezzati, e tante guardie acquattate dietro gli spioncini», un trattamento che coincideva con «l’anticamera della pazzia».
Le illustrazioni di Fabio Santin coinvolgono il lettore: la sveglia alle 6, il pranzo alle 11, la lunga attesa fino alle 6 di sera, quando il detenuto numero 515 può tornare ad abbassare il letto e stendersi, «anche se addormentarsi è sempre faticoso per via della catena e per le ispezioni». Così fino al 22 maggio 1901, quando viene dichiarato suicida.
Pasi sottolinea come non vada dimenticato Sandro Pertini (pure lui rinchiuso a Santo Stefano durante il fascismo), che parlando nel 1947 all’Assemblea Costituente, aveva voluto precisare: «non è vero che Bresci si sia suicidato: prima l’hanno ammazzato di botte e poi hanno attaccato il cadavere all’inferriata e diffuso la notizia del suicidio».
Questa tesi («non ho ucciso un uomo, ma un principio») Bresci non la ribadirà solo durante il processo, svoltosi in agosto e conclusosi con la condanna all’ergastolo, e «i primi sette anni di segregazione cellulare». Continuerà a ripeterla anche dopo essere stato trasferito in cella d’isolamento nell’isola di Santo Stefano, vicino a Ventotene. Il racconto che Pasi dedica a come Bresci passava le giornate è spietato: «Ferri, catene, pasti minimi, mutismo assoluto, luce dei controlli anche di notte, sonni brevi e spezzati, e tante guardie acquattate dietro gli spioncini», un trattamento che coincideva con «l’anticamera della pazzia».
Le illustrazioni di Fabio Santin coinvolgono il lettore: la sveglia alle 6, il pranzo alle 11, la lunga attesa fino alle 6 di sera, quando il detenuto numero 515 può tornare ad abbassare il letto e stendersi, «anche se addormentarsi è sempre faticoso per via della catena e per le ispezioni». Così fino al 22 maggio 1901, quando viene dichiarato suicida.
Pasi sottolinea come non vada dimenticato Sandro Pertini (pure lui rinchiuso a Santo Stefano durante il fascismo), che parlando nel 1947 all’Assemblea Costituente, aveva voluto precisare: «non è vero che Bresci si sia suicidato: prima l’hanno ammazzato di botte e poi hanno attaccato il cadavere all’inferriata e diffuso la notizia del suicidio».
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