UN RITRATTO DEL GRANDE SCRITTORE A CENT’ANNI DALLA NASCITA
I racconti non pubblicati, i giri di birra, una serata con Havel e una falce fatale. Tra ricordi, fotografie e aneddoti Hrabal L’anniversario
UN RITRATTO DEL GRANDE SCRITTORE A CENT’ANNI DALLA NASCITA
I racconti non pubblicati, i giri di birra, una serata con Havel e una falce fatale. Tra ricordi, fotografie e aneddoti Hrabal L’anniversario
La carta è parecchio ingiallita, ma forse era gialla già allora, nel ’59: c’era ancora penuria di carta, in quel finire degli anni Cinquanta, nella Cecoslovacchia non ancora pienamente destalinizzata (anzi: in realtà solo molto parzialmente), e per le bozze di stampa non si sprecava certo quella buona. Le correzioni, le aggiunte, sono però lì, tracciate con la riconoscibilissima calligrafia un po’ tremolante di Hrabal. Era il suo primo libro di racconti (anzi: avrebbe dovuto esserlo), dal titolo sufficientemente bizzarro da far da presentazione a uno scrittore a dir poco anomalo per l’epoca: L’allodola sul filo, titolo senza alcun apparente legame con ciò che c’era nei racconti. Un trucco per aggirare la censura? La prima di una lunga serie di provocazioni linguistiche? Chissà… Intanto, però, lo scandalo seguìto alla pubblicazione del romanzo I vigliacchi di Josef Škvorecký (con corollario di licenziamenti e copie ritirate — benché tardivamente — dalle librerie) spinge la casa editrice a bloccarne la pubblicazione e a smontare i piombi, per cui di quel libro avanzano oggi solo quelle bozze che Hrabal mi aveva regalato sul finire degli anni Ottanta, durante uno dei molti pomeriggi passati assieme («del resto sono più utili a lei che a me»).
Se si escludono i due racconti usciti nel ’56 — in 250 copie — come allegato al Bollettino dell’Associazione dei bibliofili cechi, iniziava così la carriera ufficiale di scrittore Bohumil Hrabal, il maggior narratore ceco della seconda metà del Novecento, nato in Moravia il 28 marzo di cent’anni fa, giusto tre mesi prima dell’attentato a Sarajevo (e quindi ancora all’interno dell’Impero austro-ungarico). E, oltretutto, quello non era neanche il primo libro che gli smontavano bello e impaginato. La cosa era già successa — undici anni prima — alla Stradina perduta, un volumetto nel quale Hrabal, ancora a Nymburk (una cinquantina di chilometri da Praga, la cittadina della sua giovinezza), aveva raccolto a proprie spese il meglio della sua produzione poetica, in parte risalente al periodo in cui era ancora un ventenne che arrossisce facilmente, che facilmente balbetta e s’impappina, e il sabato si attarda a stirare le banconote da dieci corone «per infilarle poi con cura nel portafoglio e mettermi in bella mostra nel momento in cui, in osteria, avrei pagato la consumazione». Un elegante gagà, coi capelli impomatati e lo sguardo languido, «sempre agghindato all’ultima moda», con un vestito di sartoria, camicia su misura e guanti in pelle di cervo.
La stradina perduta, che nel finale già conteneva le avvisaglie di una nuova scrittura, era andato a infrangersi contro la nazionalizzazione della tipografia seguita alla presa di potere comunista di febbraio, quando «arrivò il 1948… e io mi ritrovai un po’… non dico messo da parte… ma, insomma, mi ritrovai a lavorare alle acciaierie di Kladno», come mi aveva raccontato, con una cospicua dose di ironia, nell’intervista che gli avevo fatto per L’Espresso nel 1986, al tempo dell’uscita della mia traduzione di Ho servito il re d’Inghilterra.
Sì, il trentenne Hrabal, già con un copioso passato da poeta inedito (frutto della lettura di poetisti cechi e surrealisti francesi) e da pochi anni finalmente laureatosi in legge (l’occupazione tedesca aveva avuto tra le altre conseguenze anche la chiusura delle università), finisce a lavorare alle acciaierie Poldi, la Poldinka come la chiamavano affettuosamente gli operai, piccolo inferno dall’incidente facile, dove — come leggiamo nello splendido poemetto La bella Poldi (1950), che ne mitizza i contorni — «Dio guida l’ambulanza e da solo raccoglie gli angeli spezzati e li trasporta nella notte». E quella breve esperienza (tre anni, fino a un incidente sul lavoro che toglie di mezzo anche lui) segnerà non solo la sua scrittura ma soprattutto il suo modo di guardare.
Alcuni anni più tardi, ricordandosi forse di André Breton che aveva parlato dei poeti come di «apparecchi di registrazione» che ricusano ogni «operazione di filtraggio della realtà», scriverà infatti Hrabal: «Un uomo che ritiene di essere nato per diventare scrittore deve imparare a diventare un occhietto di diamante in movimento, deve imparare a montarsi un nastro di registratore nel cervello». Come il Cineocchio di Dziga Vertov, quei documentari che riprendavano quasi «oggettivamente» le conquiste della rivoluzione russa, anche Hrabal essenzialmente ascolta, osserva, memorizza. E scrive un racconto come Jarmilka, incentrato su un’addetta alla distribuzione del cibo lì a Kladno, musa — volutamente priva di fronzoli — della nuova «fattografia » hrabaliana, da opporre alla Nadja un po’ folle e artistoide raccontata da Breton. «Cinéma vérité», come dirà nel ’65 in un’intervista. Ma i crudeli racconti di quegli anni, e i non meno crudeli poemetti (oltre alla Bella Poldi anche Bambino di Praga),
rimarranno inediti per diversi decenni, falsando in tal modo la percezione dello scrittore Hrabal da parte dei lettori, trasformandolo — complice, bisogna dirlo, Hrabal stesso — in un nuovo Jaroslav Hašek, un compare del soldato Švejk, mentre invece la raffinata complessità narrativa hrabaliana, il suo gusto moderno del montaggio, la pratica delle citazioni (da Dante ai più biechi manifesti murali) lo allontanano drasticamente da Hašek, e se c’è un modello da indicare dietro la dominante del linguaggio parlato («il parlato come spettacolo », per citare Gianni Celati) questo sarà da rinvenire piuttosto in Louis-Ferdinand Céline, «l’irraggiungibile Céline», come mi diceva in quell’intervista.
Più che inventare, Hrabal ama assemblare, riutilizzare, incollare «oggetti trovati» di vario ordine e natura (storielle, immagini…), così come faceva anche concretamente negli anni Cinquanta, e poi di nuovo vent’anni dopo, in alcuni affascinanti collage cartacei che nei primi mesi della nostra frequentazione alla Tigre d’oro mi aveva invitato a casa sua a vedere, disegnandomi — su quei foglietti dove in osteria si segnano le birre — una mappa per come raggiungerlo. Così, ad esempio, nel Re d’Inghilterra Hrabal confessa di aver utilizzato i ricordi dell’oste della cittadina di Sadská, mentre altri frammenti provengono da Miloš Havel, proprietario degli Studi Barrandov e zio di Václav. E una volta che avevamo fatto un giro al castello di Lysá nad Labem, una trentina di chilometri da Praga, alla casa di riposo dove avevano dimorato negli ultimi anni la madre di Hrabal e il fantasmagorico zio Pepin, a un certo punto tra le statue tardobarocche del parco ci si era parata davanti un’esile figura femminile in pietra arenaria, con una falce quasi infilata nella testa, e là era stato immediato ricordarsi di un personaggio del suo secondo libro di racconti del ’64, Pábitelé (parola inventata che potremmo rendere con Cianfruglioni): il poveretto, inseguito dalle api, non trova di meglio per liberarsene che
agitare in maniera forsennata la falce che ha in mano e che fatalmente gli si va a conficcare nella testa. Si vedeva che Hrabal si stava divertendo, scoperto lì nel suo archivio di immagini, e si era subito messo in posa a imitarne il gesto. Non mi restava altro che scattare la foto.
In quegli anni a Praga avevo l’abitudine di portare sempre con me la macchina fotografica, per cui avevo potuto fotografare, con Hrabal che mi faceva da Cicerone, gli angoli di Nymburk — la torre dell’acqua, le mura dell’ormai scomparsa fabbrica di birra gestita dal patrigno — che avevo incontrato traducendo La tonsura e che avrei ritrovato affrontando alcuni anni più tardi La stradina perduta.
E avevo potuto fotografare, nell’appartamento di Praga, l’enorme dorata corona di David (poi donata allo scrittore Arnošt Lustig) che si stagliava sulla parete della camera da letto, e che Hrabal negli anni Cinquanta aveva rinvenuto nella vecchia sinagoga di Liben, ormai adibita a magazzino del Teatro S. K. Neumann, quando era stata definitivamente smantellata. Certo, aver potuto invece riprendere il bric-à-brac che affollava gli spazi dell’appartamento di Liben (Sull’argine dell’eternità) dove Hrabal tornava dal lavoro all’acciaieria, e dov’era rimasto per vent’anni! Una casa tutta stracolma — a quel che scrivevano i giornalisti che, dopo l’uscita nel ’63 del suo primo volumetto di racconti (La perlina sul fondo), cominciavano a fargli visita — di targhe pubblicitarie, placche coi numeri civici, alcune maschere mortuarie dello stesso Hrabal (opera dell’amico Vladimír Boudník) e persino una protesi attaccata al lampadario, che a questo punto ci verrebbe da immaginare tutto fatto di minuscole ossa umane, come nella cripta di Sedlec a Kutná Hora.
E mi era riuscito anche di immortalare, alla fine di maggio del 1989, alla prima praghese di Ho servito il re d’Inghilterra, lo storico incontro di Hrabal con Václav Havel, da poco per l’ultima volta scarcerato e accolto alla stazione di Praga da una piccola folla che già lo acclamava «il nostro presidente». Un po’ smagrito, con i muscoli ai bordi della bocca che ne tradivano la tensione, il futuro presidente guarda divertito, quasi affascinato, un Hrabal in piena affabulazione. Teatrale, irrefrenabile.
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