Casi storici. L’autodifesa di Robert Brasillach, che veste i panni del capro espiatorio, scontando il suo fascismo e l’essersi ritrovato improvvisamente dalla parte degli sconfitti
Casi storici. L’autodifesa di Robert Brasillach, che veste i panni del capro espiatorio, scontando il suo fascismo e l’essersi ritrovato improvvisamente dalla parte degli sconfitti
Nel senso comune il nome di Robert Brasillach è tanto il sinonimo di un martire fascista quanto dell’unico scrittore che abbia pagato con la vita il fatto di essere stato un fiancheggiatore dell’estrema destra francese e il caporedattore di uno dei fogli più oltranzisti e certamente il più diffuso dell’Occupazione, per l’appunto «Je suis partout», un settimanale filonazista e rigorosamente antisemita. Da tale stereotipo (perché di questo e di nient’altro si tratta) ne deriva un secondo per cui la condanna a morte di Brasillach sarebbe stata programmata o comunque già implicita nella dinamica di un processo estraneo, nella prassi, alle normali procedure nonché dominato, nella giuria popolare, da ex partigiani comunisti assetati di vendetta e decisi perciò a comminargli una condanna esemplare.
Che di ex partigiani comunisti ne sedesse in giuria soltanto uno, che il giudice avesse trascorsi di solerte magistrato a Vichy, che infine Robert Brasillach fosse stato messo al muro non per le sue idee politiche ma per un fatto ben preciso (cioè una azione concreta di carattere criminale, del tutto estranea alla attività letteraria e semmai consonante con il suo fanatismo ideologico) era stato già documentato dalla eccellente monografia di Alice Kaplan Processo e morte di un fascista. Il caso di Robert Brasillach (Il Mulino 2003): fatto sta che incarcerato a Fresnes (dove fino a pochi mesi prima i suoi degni camerati avevano recluso ebrei e partigiani del Maquis), lo scrittore è processato il 19 gennaio del ’45, viene condannato a morte e fucilato nel forte di Montrouge il 6 febbraio, non appena la domanda di grazia avanzata da un gruppo di intellettuali, e su tutti il romanziere cattolico François Mauriac, è respinta da De Gaulle in persona. L’uscita di Memorandum La mia autodifesa (traduzione di Giulia Rossi, a cura di Riccardo De Benedetti, Medusa pp. 80, euro 11.00), con una limpida introduzione di Emanuele Trevi che ne contestualizza il caso, dà ulteriore conferma del fatto che il capo d’accusa ascritto a Brasillach è il famigerato art. 75, il quale parla espressamente di «intelligenza col nemico».
In pratica, «Je suis partout» aveva messo in pagina, con chiaro intento di delazione, recapiti e dati segnaletici di oppositori politici, di ebrei e di resistenti favorendo la cattura di alcuni di costoro da parte degli occupanti nazisti: Brasillach, al vertice della redazione, non poteva non saperlo e dunque aveva avallato una simile infamia. Nel Memorandum, paradossalmente, di tutto ciò rimane scarsissima traccia perché il giovane e ambizioso avvocato dello scrittore, Jacques Isorni, deve averlo convinto a vestire i panni di un Andrea Chénier redivivo, vale a dire di un capro espiatorio o di un innocente chiamato a lavare la colpa di essere fascista e soprattutto di essersi trovato, all’improvviso, dalla parte degli sconfitti.
La strategia di Isorni è tatticamente disastrosa (perché, non entrando nel merito, di fatto vota Brasillach alla esecuzione) ma strategicamente geniale per la fondazione del suo mito postumo e del relativo martirologio. Lo scrittore sembra adeguarsi docilmente ai suggerimenti del suo legale e sorvola o quasi sulla pubblicazione della lista mentre sceglie di rivendicare con puntiglio le origini, il decorso e gli esiti di un impegno politico che nasce nella sua famiglia di orfano del colonialismo (il padre ufficiale perde la vita in Marocco, nel ’14 durante un’imboscata, quando Robert ha cinque anni), prosegue fra la jeunesse dorée del Liceo «Louis Le Grand» a Parigi e l’adesione alla «Action Française», culmina con la militanza fascista tra i moti del 6 febbraio ’34 in Place de la Concorde e la Guerra di Spagna di cui Brasillach è sia un testimone oculare sia uno storico di parte franchista. Il tono del suo pronunciamento, spoglio dei drappeggi à la Corneille di cui amava infiorare anche le prose più violente, qui risulta pacato e a tratti persino modesto (in uno stile ulteriormente sottotono nella resa italiana, troppo spesso meccanica e impacciata); il suo scopo è parlare alla giuria nei modi di un patriota, di un figlio della Francia eterna, calunniato e ingiustamente braccato: chiama di continuo in correo De Gaulle, cita i casi dei molti pétainisti trapassati di colpo a sinistra, non rinnega l’antisemitismo (che peraltro condivide con un André Gide), rivendica la funzione storica o anzi salvifica della politica collaborazionista: «Gli scrittori collaborazionisti hanno permesso […]il silenzio degli altri e la loro azione sotterranea. Gli uomini politici collaborazionisti hanno permesso agli altri di creare dei legami e di fare delle manovre, di preparare un futuro di rinnovamento. È al riparo del collaborazionismo che la Francia ha potuto vivere».
Troppo poco per essere assolto o avere salva la vita di fronte all’evidenza di una delazione consumatasi apertis verbis e al riparo delle croci uncinate. Va aggiunto tuttavia che lo scrittore mantiene nel dibattimento una condotta dignitosa, opposta a quella di altri due colleghi colpiti dall’art.75, entrambi letterariamente più grandi di lui: Céline fugge in Danimarca, spergiura e adultera il suo stesso antisemitismo virandolo in un improbabile antibellicismo mentre Lucien Rebatet (un altro redattore di «Je suis partout», firmatario dell’abnorme libello Les décombres, bestseller dell’Occupazione, così come del grande romanzo Les deux étendards, ’52, mai tradotto in italiano) al processo scandalizza i fascisti con reiterati gesti di viltà e servilismo che arrivano alla palinodia. Quanto al Memorandum, se letto nella sua entità dovrebbe chiudere il caso Brasillach e liquidarne la mitologia.
Altra è invece la questione della letteratura contenuta nei tredici volumi che Maurice Bardèche (il cognato, camerata di tutta una vita, nazista e negazionista, autore di Norimberga o la terra promessa) curò per Plon nel 1963 e di cui si servì Giorgio Almirante, nientemeno, per l’unica antologia (Brasillach, Ciarrapico 1979) mai uscita in Italia. Cosa resta davvero di lui, al di là del romanzo più famoso, Le Sept Couleurs del ’39, circonfuso di estetismo? Non molto, dopo tutto: unaHistoire du Cinéma (’35) sempre prediletta dagli specialisti; una singolare memoria autobiografica (Notre avant-guerre poi integrata dal Journal d’un homme occupé, ’55); pagine sparse di critica letteraria che rivelano, nota Trevi, «un’inclinazione alla stroncatura, alla diffamazione, a volte al teppismo puro e semplice»; infine l’alfa e l’omega, cioè il libretto giovanile Présence de Virgile, apologia del virilismo e della omosessualità adolescente insieme con gli estremi documenti di Fresnes, scabri e lancinanti come le lettere alla madre e agli amici, alcuni versi e il testamento dettato a un soldato immaginario della classe 1960. Oggi, in Francia, pare sia letto ancor meno che in Italia.
Sepolto vicino alla sorella Suzanne e al cognato Bardèche nel piccolo cimitero parigino di Charonne, ogni 6 febbraio rendono omaggio alla sua tomba gruppetti di teste rasate e militanti del Front National che intonano gli inni nazisti non escluse le orribili canzoni del sangue e del suolo. Youtube conferma come l’ultimo a giubilare in pubblico lo scrittore, con un gesto che voleva sfidare o piuttosto sfregiare la memoria della Resistenza, sia stato l’ineffabile Monsieur Le Pen: per Robert Brasillach pare non ci possa essere davvero, qui e ora, un’altra eredità.
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