Una storia violenta come il Messico

Emiliano Monge. Vita di un gringo raccontata tramite esercizi d’immaginazione della realtà, vicini alla poesia
Emiliano Monge. Vita di un gringo raccontata tramite esercizi d’immaginazione della realtà, vicini alla poesia

Nel 2011 la più impor­tante fiera del libro di lin­gua spa­gnola, quella di Gua­da­la­jara, per festeg­giare il suo ven­ti­cin­que­simo anni­ver­sa­rio ha scelto e invi­tato ven­ti­cin­que scrit­tori – gio­vani e meno gio­vani – con­si­de­rati i più «segreti» dell’America Latina, per col­lo­care final­mente sotto i riflet­tori opere e nomi non suf­fi­cien­te­mente noti o apprez­zati. E tra quei ven­ti­cin­que, pro­ve­nienti da tutto il con­ti­nente, c’era anche Emi­liano Monge, nato a città del Mes­sico nel 1978 e ormai da alcuni anni tra­pian­tato a Bar­cel­lona, autore nel 2008 di un libro di rac­conti, Arra­strar esa som­bra (Sexto Piso), e nel 2010 di un romanzo, Morirse de memo­ria (Morire di memo­ria, La Nuova Fron­tiera 2012), capaci di col­lo­carlo tra gli autori più inte­res­santi della sua gene­ra­zione e di meri­tar­gli l’apprezzamento di molti cri­tici, com­preso il pole­mico José Agu­stín («Se fossi gio­vane vor­rei scri­vere così. Il romanzo di Monge non accetta i limiti») che negli anni ’60 aveva ten­tato di met­tere a ferro e fuoco la let­te­ra­tura mes­si­cana insieme ai gio­vani dell’Onda, cor­rente let­te­ra­ria vaga­mente beat.
Tre anni dopo, Monge non è più così «segreto»: con la sua ultima opera, El cielo arido (Ran­dom House Mon­da­dori 2012), ha vinto l’importante Pre­mio Jaén de Novela ed è appro­dato alla tra­du­zione in diverse lin­gue, com­presa la nostra: La Nuova Fron­tiera ha da poco pub­bli­cato, infatti, Cielo arido (pp. 220, euro 19,00) nella ver­sione ita­liana della brava Nata­lia Can­cel­lieri, alle prese con un testo indub­bia­mente non facile del quale è riu­scita a ren­dere quasi per intero il fascino e lo spes­sore lin­gui­stico.
Un romanzo final­mente maturo, che man­tiene tutte le pro­messe con­te­nute nei pre­ce­denti testi dell’autore e sfida in più modi chi legge: prima di tutto chie­den­do­gli di adden­trarsi in una sto­ria rac­con­tata in modo non lineare e basata invece su audaci salti tem­po­rali; poi met­ten­dolo a con­fronto con la pre­senza di una voce nar­rante così forte e defi­nita da diven­tare un per­so­nag­gio a sé; e infine espo­nen­dolo a una prosa ricca di frasi lun­ghe e com­plesse, fatta di innu­me­re­voli ite­ra­zioni che le con­fe­ri­scono un ritmo incal­zante e ipno­tico, scan­dita da un uso pecu­liare della pun­teg­gia­tura, affol­lata di visioni e imma­gini di una vio­lenza oscura, senza fine né prin­ci­pio, resa ancor più per­tur­bante dall’estrema e quasi pit­to­rica cura per il det­ta­glio.
Il pro­ta­go­ni­sta di Cielo arido è Ger­mán Alcán­tara Car­nero detto il Gringo, un uomo che di que­sta vio­lenza è l’incarnazione, per­so­nag­gio straor­di­na­ria­mente vivo e riu­scito che, nato nel cuore della meseta, fugge da casa ancora bam­bino dopo aver ucciso il padre, capeg­gia una cru­dele banda di ado­le­scenti, si spo­sta oltre con­fine e lavora nelle miniere degli Stati Uniti. Ma anche là uccide, e per que­sto è costretto a tor­nare nel suo paese dove gli sarà affi­dato – nel mezzo di quel mede­simo Mes­sico rurale che vive nei romanzi di Juan Rulfo, Elena Garro, Daniel Sada e molti altri, grandi e meno grandi – il distretto di Lago Seco, una sorta di minu­scolo impero «che conta 30.234 abi­tanti, tutti figli e nipoti e bisni­poti dell’incesto, uomini e donne con le vene che, per usare le parole del Nostro, tra­boc­cano di ran­core, disgu­sto, paura, ser­vi­li­smo, odio e fal­sità…»
Metà cacicco e metà pre­done, per anni il Gringo ammi­ni­stra una (in)giustizia per­so­nale e feroce, incen­dia, uccide, tor­tura, assi­ste alla morte della sola donna che ha amato, al sui­ci­dio del suo unico amico, alla nascita di un figlio deforme… fin­chè a un tratto decide di met­tere un punto fermo alla vio­lenza e insieme ai cani che ha adot­tato si ritira nella sua casa dalle porte eter­na­mente chiuse dalla quale uscirà solo per essere ucciso insieme a uno dei suoi ani­mali. Dal 1901, anno della sua nascita, al 1981, quando il deserto lo vede «andare oltre i con­fini della carne», Ger­mán Alcán­tara sem­bra vivere più di una vita, cru­dele e dispe­rata come il pae­sag­gio che lo cir­conda, e altret­tanto irre­di­mi­bile. I momenti più impor­tanti della sua esi­stenza, alli­neati senza alcun ordine cro­no­lo­gico da un nar­ra­tore che delu­cida, spiega, anti­cipa e inter­viene, e che lo chiama con nomi diversi (il Nostro, il Peni­tente, il Tre­me­bondo), coin­ci­dono spesso con epi­sodi cru­ciali della sto­ria mes­si­cana, dalla rivo­lu­zione del 1910 alla guerra cri­stera, fino al nar­co­traf­fico: per­ché la vio­lenza, la cor­ru­zione, l’ingiustizia che impe­di­scono ogni volta la reden­zione cui il pro­ta­go­ni­sta aspira, ven­gono da lon­tano e – sem­bra dirci Monge – sono tra le radici più pro­fonde e anti­che del Mes­sico, quelle che con­ti­nuano a intral­ciarne il viag­gio tor­men­tato verso il mirag­gio di una nor­ma­lità sem­pre più lon­tana e irrag­giun­gi­bile.
La sto­ria di Ger­mán Alcán­tara è, dun­que, la meta­fora di una vicenda nazio­nale, di una Sto­ria alla quale nes­sun mes­si­cano (o addi­rit­tura nes­sun lati­noa­me­ri­cano) può dichia­rarsi estra­neo e che con­ta­mina e con­di­ziona anche chi pre­tende di uscirne o di rin­ne­garla; allo stesso tempo, però, ci riguarda tutti, è uno spec­chio che riflette quanto è acca­duto e va acca­dendo in innu­me­re­voli altrove, a volte lon­ta­nis­simi dal Mes­sico e dai suoi deserti, come lo sono certi «cor­tili» di casa nostra.
Tutto que­sto Monge rie­sce a dirlo, a rac­con­tarlo, nel modo meno pre­ve­di­bile e scon­tato, senza cadere in nes­suno degli ste­reo­tipi che l’estetica della vio­lenza sem­bra com­por­tare ed esi­gere (pen­siamo solo alla lite­ra­tura de la vio­len­cia fio­rita in Colom­bia o alla cosid­detta «let­te­ra­tura del nar­co­traf­fico» mes­si­cana, non priva di meriti ma dive­nuta in buona parte un filone ripe­ti­tivo quanto com­mer­ciale); per que­sto gio­vane autore che non ha paura di fare rife­ri­mento a «padri» impe­gna­tivi, da Rulfo allo spa­gnolo Juan Benet, non per «ucci­derli» ma per meglio per­ve­nire a un suo pro­prio lin­guag­gio, la forma della nar­ra­zione ha un’importanza capi­tale: i con­te­nuti sono scol­piti e model­lati da una prosa per­so­na­lis­sima che a volte sfiora la poe­sia; e la strut­tura che sor­regge il romanzo, costruita con grande abi­lità, rimanda con­ti­nua­mente dalla dimen­sione indi­vi­duale a quella col­let­tiva gra­zie a una com­plessa archi­tet­tura fatta di schegge e fram­menti, acco­stati con atten­zione.
È inte­res­sante notare come, all’interno dello sti­mo­lante vivaio di voci nuove dell’ultima let­te­ra­tura mes­si­cana, Monge abbia scelto una strada che, insieme ad alcuni altri autori molto diversi da lui ( per esem­pio il for­mi­da­bile Yuri Her­rera), lo ha por­tato lon­tano dal parco-giochi gene­ra­zio­nale dell’auto­fic­ción, ossia da quell’insistito par­lare di sé aper­ta­mente o in con­tro­luce, avendo come bus­sola la pro­pria infan­zia o ado­le­scenza con i loro inos­si­da­bili riti di pas­sag­gio, che acco­muna tanti gio­vani scrit­tori non solo mes­si­cani e lati­noa­me­ri­cani e – tranne in casi pro­di­giosi come l’autobiografico Canción de tumba di Julián Her­bert (che tra poco appa­rirà anche in Ita­lia per merito dell’editore Gran­vìa) – corre così spesso il rischio di tra­sfor­marsi in pura chiac­chiera auto­re­fe­ren­ziale.
Quello che inte­ressa Monge, e lo si intui­sce dalle prime pagine, è una let­te­ra­tura che sap­pia re-immaginare la realtà per resti­tuir­cene il senso (o la man­canza di senso) e che non abdi­chi a una costante e indi­spen­sa­bile ricerca for­male: avere qual­cosa da dire e farlo senza rinun­ciare alla scrit­tura, in tempi che pre­su­mono di poterla «inse­gnare» in venti lezioni, è già molto, mol­tis­simo. Ed è uno dei motivi per i quali Cielo arido andrebbe letto, e magari riletto.

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