? Un'imagine dal doc I Paisan

Cinema. Con una camera amatoriale, Giuseppe Morandi, sempre insieme a Gianfranco «Micio» Azzali, filma la cultura e il mondo di cui fa parte. Il 20 e il 21 febbraio a Roma un omaggio al regista
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Se l’immagine diventa lotta di classe

? Un’imagine dal doc I Paisan

Cinema. Con una camera amatoriale, Giuseppe Morandi, sempre insieme a Gianfranco «Micio» Azzali, filma la cultura e il mondo di cui fa parte. Il 20 e il 21 febbraio a Roma un omaggio al regista

? Un’imagine dal doc I Paisan

Cinema. Con una camera amatoriale, Giuseppe Morandi, sempre insieme a Gianfranco «Micio» Azzali, filma la cultura e il mondo di cui fa parte. Il 20 e il 21 febbraio a Roma un omaggio al regista

Nella grande cucina del Micio, scal­data da una stufa a legna, occhi attenti guar­dano le dita veloci che danno la forma ai «maru­bini», la pasta sot­tile stesa sul tavolo, secondo la ricetta che si tra­manda in casa Azzali. D’improvviso squilla il tele­fono. Una con­ver­sa­zione breve, con­ci­tata, e il Micio cala­tosi sulla testa l’immancabile ber­retto rosso, le mani ancora spor­che di farina, ci dice di uscire. «Pre­sto, dob­biamo andare a cer­care subito Giü­sep, è mezz’ora che non risponde al cel­lu­lare». Così si va di corsa verso Pia­dena, prima davanti casa di Morandi, poi nel bar del paese, dove di solito si ferma a pren­dere un caffè, tra tele­fo­nate e frasi veloci scam­biate con altri com­pa­gni. Dopo poco, Giu­seppe ci chiama: «Ma sto bene, sto bene. Sono andato solo a farmi una pas­seg­giata lungo l’Oglio e ho dimen­ti­cato il cel­lu­lare a casa» — e si intui­sce che se la ride, con­tento di tutta que­sta atten­zione, di tanto tram­bu­sto. Il Micio non vuole darlo a vedere, ma pare rinato: di nuovo ciar­liero, pieno di ener­gia, sca­rica l’ansia trat­te­nuta fino a quel momento sullo stesso Morandi con rim­brotti e pro­te­ste vee­menti per tanta leggerezza.

Ecco, tra loro c’è un legame così, che dura ormai da cinquant’anni, stretti in un soda­li­zio poli­tico, arti­stico e di vita che li vede ancora oggi attivi orga­niz­za­tori cul­tu­rali, coin­volti nelle miriadi di ini­zia­tive pro­mosse dalla Lega di Cul­tura di Pia­dena, da loro fon­data nel 1967 insieme a Pie­rino e la Genia, i geni­tori di Micio. L’associazione, che ha «base ope­raia e con­ta­dina e si richiama al movi­mento delle Leghe di resi­stenza con­ta­dine», come recita lo sta­tuto, ha sede nella cascina degli Azzali, il luogo dove ogni anno si cele­bra la festa della Lega. Per tre giorni il «mondo intero» si riu­ni­sce a Pon­ti­rolo, con dibat­titi e con­certi in cui ai canti popo­lari ita­liani si mesco­lano quelli del Ban­gla­desh, del Kur­di­stan, e dell’ India, dell’Afghanistan, dell’Ecuador, o della Romania.

Una sto­ria ricca e intensa, la loro, che vale la pena raccontare.

Giu­seppe Morandi, nato al Vho, una fra­zione di Pia­dena, da una fami­glia con­ta­dina e ope­raia, e Gian­franco «Miciu» Azzali, ber­ga­mino figlio di ber­ga­mini (gli alle­va­tori delle vac­che, ndr), ini­ziano la loro avven­tura quando una sera Gianni Bosio — instan­ca­bile pro­ta­go­ni­sta di un lavoro di ricerca e di orga­niz­za­zione cul­tu­rale, che ha messo al cen­tro la sto­ria del mondo popo­lare e delle classi non ege­moni — pro­pone al Micio di cur<CW-23>are un’inchiesta sulla con­di­zione dei ber­ga­mini: «Per­ché il Miciu fa il ber­ga­mino». Uno sti­molo ad acqui­sire con­sa­pe­vo­lezza della pro­pria con­di­zione in maniera attiva, attra­verso l’organizzazione di assem­blee e dibat­titi per rac­co­gliere le testi­mo­nianze dei mun­gi­tori di vac­che della zona.

A dire il vero Morandi aveva già ini­ziato da qual­che anno a docu­men­tare il mondo e la cul­tura con­ta­dina, sti­mo­lato dal mae­stro Mario Lodi, dap­prima par­te­ci­pando alla pro­du­zione dei Qua­derni di Pia­dena, in seno alla atti­vità della Biblio­teca Popo­lare, e poi acco­gliendo con entu­sia­smo la pro­po­sta di usare anche la mac­china foto­gra­fica e la cine­presa come mezzo di docu­men­ta­zione sto­rica. Foto­gra­fie, film e rac­conti che vanno a cir­co­scri­vere una rac­colta di testi­mo­nianze sulle modi­fi­che subite dalla pic­cola comu­nità agri­cola, ma che al con­tempo river­be­rano quanto acca­deva in tutto il Paese, e che si iscri­vono inti­ma­mente nella bio­gra­fia del suo prin­ci­pale testimone.

Morandi però rico­no­sce che il suo modo di guar­dare la civiltà con­ta­dina muta pro­fon­da­mente, rispetto a quelle prime espe­rienze: dalla nostal­gia per un mondo che andava estin­guen­dosi suben­tra, infatti, una nuova con­sa­pe­vo­lezza poli­tica. Per sua stessa ammis­sione, chi lo fa «entrare in un rap­porto di classe aperto nella vita di Pia­dena» — come si legge nel libro Il muro di Pia­dena — «è stato pro­prio il Miciu», cui Morandi rico­no­sce l’importanza di aver­gli «fatto vedere la realtà dei rap­porti all’interno dell’agricoltura […], come lui que­sti rap­porti li subiva e li con­tra­stava, come lot­tava per miglio­rarli». Da allora, pro­se­gue con luci­dità e gene­ro­sità: «Foto­grafo que­sta con­di­zione con­ta­dina osser­vando il rap­porto tra sala­riati agri­coli e l’agrario, cioè con l’occhio del Miciu appar­te­nente a que­sta cate­go­ria come subalterno».

Que­sto aspetto poli­tico della sua pro­du­zione emerge evi­dente nel ciclo de I Pai­sàn, straor­di­nari film in 8mm, girati in bianco e nero, in cui ven­gono ritratti i gesti del lavoro e la sapienza con­ta­dina degli abi­tanti dell’area del Po. Con una camera ama­to­riale a molla, pre­stata di volta in volta da qual­che amico o cono­scente, e poca pel­li­cola, Morandi — spesso accom­pa­gnato dal Micio, che regi­stra il suono in presa diretta — filma la classe e la cul­tura di cui fa parte, ossia quella dei con­ta­dini della Bassa Padana. Siamo di fronte alla prima vera ana­lisi dall’interno fatta in Ita­lia – per dirla con le parole di Marco Mül­ler che nel 1999, quando era diret­tore del Festi­val di Locarno, rende loro omag­gio pre­sen­tando que­sti lavori per la prima volta in edi­zione inte­grale. Basta vedere per esem­pio Jön du tri qua­ter sac, (1967) in cui viene fil­mato il momento della divi­sione del gra­no­turco nell’aia del padrone per farsi un’idea. Qui i pro­ta­go­ni­sti sono i brac­cianti, che abi­tano nel cor­tile, dove vivono anche gli Azzali, intenti a insac­care il gra­no­turco. A seconda degli accordi sti­pu­lati con il padrone, — come si legge in uno degli asciutti rac­conti inse­riti nella rac­colta La pro­prie­ta­ria del morto – , «se [ERA]a terzo su tre sac­chi uno era nostro, se a quarto su quat­tro sac­chi uno era nostro».

Del gra­no­turco col­ti­vato dai brac­cianti, da coloro cioè che ave­vano fati­cato a lavo­rare la terra durante l’anno, solo una pic­cola parte rima­neva loro, come mostra chia­ra­mente la dispo­si­zione dei sac­chi sull’aia della cascina. Sce­gliendo di tenere assieme nella stessa inqua­dra­tura i due gruppi di sac­chi di gra­no­turco, di cui uno è visi­bil­mente più nume­roso dell’altro, ven­gono mostrati con sin­te­tica effi­ca­cia i rap­porti di potere che inter­cor­rono tra il padrone e i paisàn.

Una testi­mo­nianza diretta, dun­que, con una forte dimen­sione per­so­nale, carat­te­riz­zata dalla volontà di pro­durre un docu­mento sto­rico — in que­sto senso in linea con altre espe­rienze di cinema ama­to­riale come A Gro­nin­gen Con­quest, (1939) citato da Roger Odin. Ma soprat­tutto una testi­mo­nianza ecce­zio­nale all’interno del cinema ama­to­riale (e non solo del cinema), dal momento che le riprese sono gui­date da un occhio interno a quella stessa classe sociale, di cui si vogliono dare volto e imma­gine. Miciu e Murand hanno chiara la con­sa­pe­vo­lezza che la docu­men­ta­zione per imma­gini resti­tui­sce dignità e potere a chi ne è pri­vato e ha la capa­cità di riscat­tare la classe non ege­mone dalla pro­pria con­di­zione subal­terna. Un pen­siero spre­giu­di­cato, il loro, non facile da far accet­tare per­sino agli stessi ber­ga­mini e brac­cianti che, infatti, si rifiu­tano di appen­dere in casa le foto di Morandi. Que­gli scatti, spiega il Miciu, che li ritrag­gono nei loro momenti di lavoro, fis­sano una con­di­zione che si vuole dimen­ti­care, vis­suta con umi­lia­zione, e per que­sto rele­gati lon­tano dalla vista, inchio­dati piut­to­sto alla porta della stalla. Men­tre la scom­messa da parte loro è quella non solo di ren­dere con­sa­pe­voli i sog­getti ripresi della neces­sità di quella docu­men­ta­zione, che parte dal basso, ma anche mostrare quelle foto­gra­fie di fronte all’intera comu­nità. Morandi lo sa bene, «l’immagine è potere», e «acqui­sire il diritto all’immagine vuol dire acqui­sire potere»: era neces­sa­rio creare un’immagine di classe che fosse ori­gi­nata da chi di quella classe faceva parte.

Morandi con­ti­nua per tutti que­sti anni a docu­men­tare in mostre e libri di foto­gra­fia, non solo la con­di­zione di chi non ha modo di acce­dere ai mezzi di comu­ni­ca­zione, ma anche il pro­fondo cam­bia­mento che inve­ste la Bassa Padana — che si può sin­te­tiz­zare in un duplice movi­mento migra­to­rio, prima quello che svuota le cam­pa­gne per la città, con la pro­gres­siva e mas­sic­cia mec­ca­niz­za­zione della cam­pa­gna, e poi quello che le riem­pie di popoli stra­nieri, come avviene ormai in maniera con­si­stente dagli anni Novanta. Quest’ultima infatti è l’ennesima tra­sfor­ma­zione della zona della Bassa, in cui i migranti, ossia la odierna classe non ege­mone, sosti­tui­scono gli anti­chi pai­sàn e ber­ga­mini nel set­tore agri­colo e in par­ti­co­lar modo nelle aziende zoo­tec­ni­che. Tra le man­sioni più fre­quenti, cui si dedi­cano que­sti uomini pro­ve­nienti per lo più dall’India e dal Paki­stan, vi sono la mun­gi­tura e l’allevamento del bestiame, come si vede negli scatti rac­colti in La mia Africa, o in Vec­chi e nuovi volti della Bassa Padana, in cui ancora una volta — fedele e coe­rente con il suo per­corso poli­tico — Morandi dà visi­bi­lità a coloro che oggi sono por­ta­tori di una cul­tura radi­cal­mente alter­na­tiva a quella egemone.

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