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Sbarre segate con la lima e lenzuola annodate per la fuga a Roma l’evasione da fumetto

 Caccia a due detenuti. E il quartiere tifa per loro: “Non fatevi prendere”
 Caccia a due detenuti. E il quartiere tifa per loro: “Non fatevi prendere”

ROMA — Dimenticate Papillon, dimenticate Alcatraz e qualunque altro film con spettacolari piani d’evasione. Questa dei due rapinatori scappati martedì notte dal carcere di Rebibbia è stata più una fuga da vignetta della Settimana Enigmistica: una lima per segare le sbarre, le lenzuola annodate per scavalcare il muro, nessun allarme che suona. Senza parole.
Fa quasi ridere, se non fosse che Giampiero Cattini, 41 anni, e Sergio Di Palo, 35 anni, ora liberi di girare per Roma disseminata di posti di blocco, sono pericolosi: pluripregiudicati, sulla fedina penale rapine, ricettazione, furti, droga e violazione degli arresti domiciliari. Sarebbero usciti nel 2018. Ma con un piano che più banale non si poteva si sono accorciarti da soli il “fine pena”, lasciandosi dietro una scia di dubbi sulla sicurezza a Rebibbia, a cui qualcuno dovrà pur rispondere. Perché non c’erano telecamere? Perché non c’era una guardia nel gabbiotto a pochi metri dal punto dove hanno scavalcato?
Torniamo a martedì. Sono le 22.05, Cattini e Di Palo guardano la tv e chiacchierano nello spazio comune della Terza Casa, l’istituto a sorveglianza attenuata dove vengono messi i tossicodipendenti e chi è prossimo alla scarcerazione «allo scopo di sviluppare l’autodeterminazione dei carcerati ». In tutto 47 detenuti e, a quel-l’ora, 3 agenti della penitenziaria e un sotto ufficiale. Uno di questi offre loro una sigaretta. Solita routine prima della chiusura notturna
delle celle.
Ma alle 22.25 i due non ci sono più. Se ne accorge il secondino dell’ultima ronda, che scopre tre sbarre di una finestra segate con una lima, forse introdotta nella prigione dentro un libro e sparita, come i suoi utilizzatori. «Sono tondini di appena 12 millimetri di diametro — denuncia Donato Capece del Sappe, il sindacato autonomo della penitenziaria — e nella struttura, da quando è entrata in vigore la vigilanza “dinamica” per il taglio del budget, è stato pure tolto il posto fisso di guardia». La finestra è a 7 metri da terra, ma Cattini e Di Palo hanno usato le grate delle altre celle come scalini, portandosi dietro le lenzuola annodate, a cui hanno applicato un gancio di ferro a un capo. Hanno lanciato l’arpione sul muro di cinta, alto 5 metri ma privo di allarme antiscavalco, si sono arrampicati e sono saltati giù, nell’area del magazzino dei vestiti. Da lì sono scomparsi nel buio della notte di Roma, senza mai incontrare una sentinella.
«Ma il sistema funziona — sostiene Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria — dato che l’ultima evasione dalla Terza Casa è stata vent’anni fa». La Procura ha aperto un fascicolo. «Pensa ai nostri quattro figli — implora Simona Mennuni, la moglie di Di Palo, dalla sua casa di Tor Bella Monaca — vieni qui e poi torna in carcere». Ma nel quartiere dell’altro evaso, Primavalle, la vedono diversamente: «Nun te fa’ prende, nun te devi fa’ prendere!”, dicono gli amici di Cattini.

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