Milioni di lavoratori senza voce né rappresentanza. Ancora non abbastanza indignati però da riuscire a far valere i loro diritti. Ma nel 2014 qualcosa cambierà. Parla Alex Foti, uno degli inventori di “San Precario”. Per invitare gli atipici a farsi sentire
Milioni di lavoratori senza voce né rappresentanza. Ancora non abbastanza indignati però da riuscire a far valere i loro diritti. Ma nel 2014 qualcosa cambierà. Parla Alex Foti, uno degli inventori di “San Precario”. Per invitare gli atipici a farsi sentire
Sono malpagati. Stretti fra l’incubo della disoccupazione e la certezza della scadenza del contratto. Ignorati dai servizi sociali, bypassati dal welfare, dimenticati dalle istituzioni che dovrebbero dare loro garanzie. Eppure non si ribellano. Si lamentano, sì, ma senza fare troppo rumore. Parliamo di quei milioni di italiani che lavorano a progetto, a tempo determinato, a chiamata, e che «dopo 15 anni dalla “scoperta” della precarietà restano ancora una categoria senza voce. Senza rappresentanza né forme innovative di protesta», sostiene Alex Foti, uno degli inventori milanesi della “May Day” e della sua divinità, “San Precario”. Sicuro, però, che quest’anno qualcosa cambierà.
I precari, quindi, non hanno rappresentanti nelle istituzioni?
«Non solo. Non hanno proprio voce, nemmeno nei confronti dei media. Ormai decine di categorie hanno la loro associazione di riferimento, che in un modo più o meno serio e concreto ne rappresenta gli interessi: agricoltori, medici, consumatori, ambientalisti. Si sono accorti presto che era necessario avere gruppi di pressione che portassero le loro istanze a Roma come a Bruxelles. I precari invece no. Ancora adesso, per consultare un parere che vada al di là di quello che dice, ad esempio, il ministro Enrico Giovannini sulla precarietà, chi si intervista? I sindacati. Ma i sindacati non rappresentano minimamente i precari. Difendono altri interessi. E finisce che i veri intermittenti, gli atipici, i lavoratori a tempo determinato o con contratti a zero garanzie restino del tutto senza voce. Nonostante ormai l’Italia sia divorata dalla disoccupazione e dalla precarietà».
Cosa c’è che non va nei sindacati?
«Innanzitutto il fatto che i sindacati tradizionali lavorano per “settore”: i metalmeccanici, i poligrafici, i dipendenti agricoli … Quella che servirebbe ai precari invece è una rappresentanza per condizione. Non importa la categoria o il reparto: ciò che conta è il fatto che non si abbiano garanzie, e che i contratti siano fatti in un certo modo. Ma questo tipo di sindacalismo in Italia non esiste, anche se iniziano ad esserci i primi esempi, come quello di Acta – l’associazione consulenti terziario avanzato – per le partite Iva, che va sicuramente nella direzione giusta. Il secondo motivo è che i sindacati tutelano innanzitutto i loro iscritti. Che sono principalmente pensionati o impiegati a tempo indeterminato. È chiaro che gli atipici quindi non siano il loro primo pensiero …»
Perché i precari non riescono a farsi sentire, allora, in altro modo?
«La risposta è sempre stata quella della frammentazione. Ovvero l’idea che i rapporti di lavoro siano talmente individualizzati ormai che trovare proposte o istanze comuni è pressoché impossibile. Ma secondo me le radici sono più profonde. È come se si trattasse di un problema di emancipazione. La società italiana considera ancora i precari dei ragazzini, dei non adulti, dei falliti, anche se hanno 40 o 50 anni magari, come raccontava l’inchiesta de “l’Espresso” , e non più solamente 25. Ed è un problema che non si risolve con la propaganda o con qualche campagna elettorale. Servono risposte concrete, come concrete sono le difficoltà che gli intermittenti si trovano ad affrontare ogni giorno: penso alla “cittadinanza bancaria”, ad esempio, che sarà una banalità, ma passa ancora solamente dal posto fisso. Anche se ormai è uno standard per pochi».
Motivi per indignarsi, per organizzarsi, insomma, ce ne sarebbero…
«Sì, ma finora la precarietà è sempre stata vissuta in modo individuale, chiusa dentro il welfare sempre più povero delle famiglie, per cui alla fine la scelta estrema diventa il suicidio, non lo scendere in piazza, l’andare a protestare. Le risposte adesso iniziano a mancare anche fra le mura di casa però, e il malessere è in aumento. Il 2014 sarà l’anno in cui si capirà che questa ripresa, se ci sarà, sarà solo finanziaria, che sarà una “jobless recovery”, una ricrescita senza lavoro. Siamo seduti su un vulcano. E non è detto che il malessere si esprimerà in termini progressisti, com’è stato per gli indignados spagnoli. Potrebbe al contrario abbracciare parole d’ordine xenofobe e di destra come è stato per i forconi ».
Lei ha scritto l’anno scorso un libro intitolato ” Essere di sinistra oggi “. Cosa significherebbe dare risposte “di sinistra” al problema della precarietà?
«Significherebbe innanzitutto investire, come suggeriva la sociologa Chiara Saraceno , in un welfare universalistico, e non basato, com’è adesso, sul lavoro indeterminato e maschile. Non è solo una questione di reddito minimo garantito. Ma anche di accesso ai servizi: asili, trasporti, università. Dovrebbero essere aperti alle nuove forme di fragilità, non escluderle. Anche perché è impossibile rivendicare un posto fisso per tutti: anche i contratti a tempo indeterminato avevano le loro criticità. La direzione è quella della flex security, che in qualche modo il Jobs Act di Renzi sembra imbroccare: dare più garanzie e sicurezze anche agli intermittenti, cercando di far sì che la flessibilità non sia automaticamente sinonimo di precarietà».
La sinistra parlamentare, fino ad ora, è riuscita a cogliere queste istanze oppure no?
«No. E a vari livelli. La sinistra radicale non è stata capace di portare avanti battaglie con risultati, anche se piccoli, concreti. Penso all’esempio della francese ” Génération Précaire “, una campagna nazionale che ha portato in piazza decine di migliaia di persone contro gli stage non retribuiti: la loro proposta ora si prepara a diventare legge. Sono esempi come questi che aggregano, che creano consensi. La sinistra parlamentare invece ha avuto con i precari lo stesso atteggiamento tenuto fino a poco fa con la generazione 2.0, quella di Facebook, Twitter, della rete: li ha sempre considerati dei ragazzini. E poi si è trovata una forza politica che ha preso il 25 per cento dei voti proprio grazie a quella generazione dimenticata: il Movimento 5 stelle ».
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