No all’obbligo dell’oblio

Ha scritto Glo­ria Anzal­dúa, scrit­trice messico-americana: la terra di con­fine fra Mes­sico e Stati Uniti è una ferita aperta, dove il terzo mondo si stro­fina col primo e san­guina. Anche la terra di con­fine fra Ita­lia e (ex)Jugoslavia è stata e rimane una ferita aperta e insan­gui­nata. Non è male che veniamo perio­di­ca­mente invi­tati a ricordarlo.

Ha scritto Glo­ria Anzal­dúa, scrit­trice messico-americana: la terra di con­fine fra Mes­sico e Stati Uniti è una ferita aperta, dove il terzo mondo si stro­fina col primo e san­guina. Anche la terra di con­fine fra Ita­lia e (ex)Jugoslavia è stata e rimane una ferita aperta e insan­gui­nata. Non è male che veniamo perio­di­ca­mente invi­tati a ricordarlo.

È un pec­cato però che un «gior­nata del ricordo» si debba inne­stare su un obbligo di oblio.

Ricor­dare i cri­mini dei par­ti­giani jugo­slavi e dimen­ti­care i cri­mini ita­liani nella Jugo­sla­via invasa, i vil­laggi incen­diati, le stragi, i pogrom, le depor­ta­zioni, campi di con­cen­tra­mento e di morte; dimen­ti­care vent’anni in cui il governo ita­liano cercò in tutti i modi di can­cel­lare una lin­gua, una cul­tura, per­sino i nomi, da quella terra di confine.

È un pec­cato per due ragioni: in primo luogo, per­ché in que­sto modo ogni volta che si evoca il con­te­sto e i pre­ce­denti delle foibe pare che lo si fac­cia per azze­rare tutto e smi­nuire la gra­vità di que­gli assas­sini, come se un cri­mine ne can­cel­lasse un altro in una spe­cie di maca­bra con­ta­bi­lità di cre­diti e debiti; e in secondo luogo per­ché pra­tica la memo­ria come arte del risen­ti­mento e del vit­ti­mi­smo, quanto abbiamo sof­ferto ma mai che cosa abbiamo fatto; una memo­ria che serve a farci sen­tire vit­time e quindi, impli­ci­ta­mente buoni e puri.

Invece la memo­ria serve a tutt’altro: serve a met­terci a disa­gio, a tur­barci, a farci porre delle domande su noi stessi. Per que­sto è giu­sto che noi comu­ni­sti ci inter­ro­ghiamo su quello che i nostri com­pa­gni hanno fatto anche in nostro nome, e quindi su che cosa c’è nella nostra sog­get­ti­vità che può con­durre a delitti simili.

E per que­sto è giu­sto che noi ita­liani ci inter­ro­ghiamo su quello che è stato fatto, in nostro nome, nei paesi invasi e mas­sa­crati; su che cosa c’è nella nostra cul­tura che può indurre gene­rali ita­liani come Robotti o Roatta a dire «qui si ammazza troppo poco» e riven­di­care la legge di «una testa per un dente».

Come comu­ni­sti ita­liani, insomma, que­sta ferita insan­gui­nata ci chiama due volte in causa, due volte vit­time e due volte assas­sini. Che fasci­sti e rea­zio­nari di ogni genere abbiano voluto que­sta gior­nata come per bilan­ciare Ausch­witz, con poco senso delle pro­por­zioni, dà fasti­dio – soprat­tutto per­ché lo fanno quasi sem­pre in modo tal­mente stru­men­tale e igno­rante che infine non ricor­dano altro che slo­gan. Ma non è una buona ragione per non ricor­dare – per non ricor­dare tutto.

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