La storia in crisi

PERCHÉ CI SIAMO FERMATI ALLO STUDIO DEL PASSATO
La concorrenza di tv, fiction e social network, il rischio di provincialismo, il silenzio sugli ultimi decenni: una disciplina sotto assedio 

PERCHÉ CI SIAMO FERMATI ALLO STUDIO DEL PASSATO
La concorrenza di tv, fiction e social network, il rischio di provincialismo, il silenzio sugli ultimi decenni: una disciplina sotto assedio 

L’ultima provocazione è stata il disegno di legge contro il negazionismo, ossia il principio di una verità storica accertata nei tribunali. Ma è solo una delle tante insidie che minacciano una categoria sull’orlo di una crisi di nervi. Lo storico di professione. Un mestiere considerato in via di estinzione, liquidato di recente da una senatrice del Partito democratico come eredità polverosa di una casta inutile, oggi reso fragile da crisi interne ed esterne al ceto accademico. E se la nuova vague sanzionatoria emersa dal Parlamento sembra al momento placata, restano aperte altre sfide. A cominciare dalla bulimia di discorsi storici che divora lo spazio mediatico. La storia ridonda ovunque, dagli sceneggiati televisivi alle vetrine dei bestseller. Ma a raccontarla non è più l’historientradizionale. «Oggi le principali agenzie culturali che producono senso storico non sono né la scuola né l’accademia», sintetizza Marcello Verga, presidente della società dei modernisti. Con conseguenze non di poco conto nella consapevolezza di una comunità, che gioiosamente si affida alla “verità autoritaria” della fiction, mai esitante sull’esatto svolgersi dei fatti. E manda in soffitta la cassetta degli attrezzi storiografici, resi assai più farraginosi dall’obbligo del dubbio e della prova documentale.
Il nuovo senso comune trova ampia eco nella rete. «Quello che colpisce nei social network» interviene Franco Benigno, autore di Parole nel tempo. Un lessico per ripensare la storia (Viella), «è l’ossessione contro la “storia ufficiale”. Non viene più riconosciuta una storiografia professionale, capace di accertare il passato per poi comprendere il presente. Essa è stata sostituita nell’immaginario da una generica e screditata disciplina ufficiale, sospettata del peggiore dei mali: oscurare i ripetuti complotti orditi dal potere ». Il complottismo, nuovo ottenebramento collettivo che getta un’ombra sulle ricostruzioni meno fantasiose. «Oggi proliferano antistorie e controstorie», continua Benigno. «Intendiamoci: è giusto che ci siano più storie. Però occorre mettere dei paletti, oltre i quali non si può andare. Non perché sia vietato, ma perché più semplicemente si entra in quella dimensione liquida in cui la frontiera tra vero e falso è diventata sempre più sfumata».
Il malumore serpeggia ovunque, ma difficilmente trova sfogo in una sede pubblica o istituzionale. Qualche convegno isolato, riflessioni in margine a libri dedicati ad altro come il saggio Antipartiti di Salvatore Lupo (Donzelli), il recente pamphlet di Giulia Martinat Tra storia efiction (Et al edizioni). Per lo più frammenti di un discorso che fatica a ricomporsi. Anche perché da un più profondo esame di coscienza la categoria non ne esce del tutto innocente. «Siamo stati sostanzialmente detronizzati», aggiunge Benigno. «Un tempo eravamo consiglieri del principe, oggi il principe si circonda prevalentemente di economisti e di scienziati sociali. Il distanziamento dal potere potrebbe rappresentare una grande liberazione per la disciplina, ma tra gli storici è mancata una discussione della stessa forza di quella che ha smosso gli antropologi sul ruolo esercitato rispetto al colonialismo. Non possiamo continuare a raccontarci che nell’Italia repubblicana sia esistita una grande storia razionale e oggi siamo in preda all’emotività del post-moderno. Elementi mitopoietici erano presenti anche allora, in funzione di un presente strettamente legato ai partiti e ai grandi movimenti sociali. Abbiamo riflettuto abbastanza? A me non sembra. Abbiamo scelto di dirlo in un modo troppo morbido».
A questi fattori di crisi se ne aggiungono altri, che oltrepassano i confini nazionali. Negli ultimi decenni anche in ambito storiografico s’è formato un “sovramondo” di lingua inglese a cui partecipano culture storiche lontane, dall’India alla Scandinavia. «L’Italia fatica a entrare in questa comunità sovranazionale », interviene Andrea Graziosi, ex presidente della società dei contemporaneisti. «L’università è cambiata, una parte è lentamente scivolata in una chiusura localistica, che ha accentuato l’isolamento di tanti studiosi seri, ritrovatisi soli. E anche il contesto culturale italiano dei primi anni Novanta, con l’esplodere del secessionismo leghista e delle tendenze particolaristiche, ha rafforzato il carattere nazionale degli studi storici, proprio nel momento in cui la storiografia occidentale prendeva atto della sua marginalità nella scena mondiale». Tramontava in quegli anni una prospettiva eurocentrica, ma noi eravamo ipnotizzati dall’emergenza italiana per accorgercene. E il successivo ventennio non ci avrebbe certo aiutato a guardare altrove. «La storiografia occidentale nazionale oggi è spinta ai margini», aggiunge Graziosi. «Ma noi ne stiamo prendendo atto con moltissimo ritardo».
Il peso della tradizione è ancora forte, anche se si sono spezzati i legami delle grandi scuole, avendo smesso la generazione di mezzo di fare allievi, come rileva un’autorità della storia moderna quale Giuseppe Giarrizzo. E alcune specificità italiane come la Controriforma o l’invenzione
del fascismo sono temi troppo ingombranti per essere serenamente archiviati. «Ma nello studio del Cinquecento e del Seicento », interviene Verga, «sta crescendo una giovane leva molto attrezzata, capace di rapportarsi all’Italia spagnola in una prospettiva non più vincolata allo schema nazionale dei maestri ». Più angusto appare invece lo sguardo della storia contemporanea, che poi spesso si traduce in storia del Novecento. Due anni fa, nella lettera di fine mandato, l’allora presidente della Sissco (la Società italiana per lo studio della storia contemporanea) Graziosi lamentava il rischio di una storia «italo/italiota ». «Chi conosce una sola cosa in realtà non sa nemmeno quella. Vale a dire che chi studia la storia italiana guardando solo la storia italiana non può comprenderla, perché non ha nulla dentro di sé con cui compararla, e dunque per capirne originalità e scarti, affinità e ritmi». Graziosi, che è studioso dell’Unione Sovietica, fa notare come la massima parte della produzione scientifica sia concentrata su temi italiani, con un’ostinata insistenza su fascismo e totalitarismi, Resistenza e comunismo. «Mi sembra scarseggino i grandi protagonisti della storia mondiale, esempio India o Cina, trattati da piccoli gruppi di studiosi. Così per parlare con il mondo l’Italia — che riesce a parlare con l’Europa e gli Stati Uniti — è costretta a passare per Londra o per Parigi».
Un altro problema riguarda il rapporto con il tempo: la storiografia italiana fa fatica a stare al passo con la storia presente. «Se negli anni Sessanta», continua Graziosi, «studiosi come Renzo De Felice e Claudio Pavone lanciavano ambiziosi progetti di ricerca sul fascismo e la Resistenza — a meno di vent’anni dalla loro fine — oggi la ricerca storica è spesso ferma agli anni Cinquanta e Sessanta. E gli studi sugli anni Settanta sono affascinati dal
terrorismo, certo un problema tragico ma forse sopravvalutato rispetto alla storia successiva del paese rispetto alle sue strutture profonde. Anche le ultime migliori sintesi storiche arrivano agli anni Novanta, dedicando al decennio successivo soltanto pagine veloci».
Quel che affiora è una generale afasia della storia accademica sugli ultimi decenni, indagati con maggior vigore da economisti e sociologi, demografi e scienziati della politica. Un silenzio quasi paradossale rispetto alla facondia della piazza mediatica. E se si ricominciasse proprio da qui, da una rigorosa storiografia capace di interpretare il nebuloso presente? Un modo, anche questo, per ritrovare l’identità perduta.

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