IL GRANDE ESERCITO DEI QUARANTAMILA MATTI DI GUERRA

Il primo conflitto mondiale visto dai manicomi
Il primo conflitto mondiale visto dai manicomi

Un esercito di uomini rotti, spezzati dentro. «Apatici», «inespressivi», «abbandonati in una dimensione senza tempo». La grande guerra significò anche questo, una devastazione intima che cambiò il paesaggio della mente. E colpisce che, nel profluvio di pubblicazioni in occasione dell’importante centenario, una singolare ricerca di Annacarla Valeriano scelga di sondare proprio quel territorio di dolore, le rotture psichiche conservate nelle cartelle cliniche di un manicomio italiano, uno dei più grandi del Centro-Sud (Ammalò di testa, Storie dal manicomio di Teramo 1880-1931, Introduzione di Guido Crainz, Donzelli, pagg. 260, euro 26).
I matti di guerra. O, nella variante incattivita, gli scemi di guerra. Furono più o meno quarantamila i soldati che dalle trincee traslocarono in ospedale psichiatrico, i cervelli che «sciaguattavano nella scatola cranica come l’acqua agitata in una bottiglia » (copyright Emilio Lussu). Uno spaesamento che non fu compreso dalla classe medica, allora per la gran parte subalterna allo schema nazional-patriottico, dunque incline a liquidare l’alienazione di quei reduci come frutto di tare ereditarie.
Sono migliaia le storie dimenticate raccolte con sensibilità e intelligenza dalla Valeriano, assegnista di ricerca dell’Università di Teramo, che in realtà indaga la storia italiana ben oltre la grande guerra. «Un grande racconto del dolore», lo definisce Crainz, che «è anche storia aspra della società italiana tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo». Prima le sofferenze dell’emigrazione, in chi parte e chi resta. Poi la leva obbligatoria, con l’ingresso prepotente dello Stato nelle vite private. Ed ancora un confuso istinto di liberazione femminile che viene liquidato sotto l’infamante etichetta dell’isteria. Nei cinquemila fascicoli personali del manicomio abruzzese sono narrati i sommovimenti interiori dell’Italia rurale, messa a dura prova dai processi di modernizzazione. In questa storia nazionale, filtrata attraverso le mura di un’istituzione totale, un posto centrale è occupato dal conflitto. Abisso di sangue e di tenebre, la guerra ebbe l’effetto di allargare l’orizzonte psichico in quella «terra di nessuno» indagata da J. Leed. L’ossessione di un nemico invisibile, l’improvviso abbagliare di luci e di scoppi devastanti, la normalità della morte anonima e di massa: in molti riuscirono a salvarsi grazie a un’estraniazione costante, a un ottundimento del senso della vita che li avrebbe segnati per sempre. Grazie ai duecentosessanta militari accolti nel manicomio di Teramo, possiamo seguirne deliri, allucinazioni, arresti psichici, ossessioni ipocondriache. Nuove e sconosciute patologie con cui la medicina fu costretta a misurarsi, spesso riconducendole «in un terreno costituzionalmente predisposto», senza capire l’importanza dell’emozione scatenante. Il trauma della guerra.
La «sindrome isterica», così venne definita, era anche il modo inconsapevole con cui questi uomini tentarono di ribellarsi alla vita in trincea. Una sorta di dispositivo di sicurezza. «Se attraverso le esagerazioni del corpo isterico le donne erano riuscite a esternare il rifiuto contro ruoli, regole e modelli percepiti come costrittivi», annota la Valeriano, «per i soldati il rifugio nell’isteria divenne un modo per manifestare la propria opposizione». Una rivolta accolta dalla classe psichiatrica con riprovazione, perché contraddiceva il modello di virilità imperante nel discorso pubblico. All’interno dei manicomi franava tragicamente «la retorica del combattente», come ci hanno raccontato sia Isnenghi che Gibelli. E franava la psiche di molte mogli e madri che, trascinate a ruoli di responsabilità fuori dei confini domestici, non riuscirono a sopportarne il peso. Ma anche con loro la medicina si rivelò feroce, riferendo le nevrosi a uno squilibrio d’origine.
Oltre le cartelle cliniche, parlano le «corrispondenze negate», le lettere degli internati mai arrivate a casa per la censura dei medici. Missive, cartoline, biglietti conservati dentro i fascicoli personali, perché ritenuti «mezzi diagnostici supplementari» per accertare la follia dei pazienti. Un libro, questo della Valeriano, sulla disperazione degli esclusi e sull’arrogante inadeguatezza dei ceti dirigenti, incapaci di rapportarsi a un mondo che tumultuosamente cambiava.
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IL LIBRO
Ammalò di testa di Annacarla Valeriano (Donzelli pagg. 260 euro 26)

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