ICONA RIBELLE

Da Assange a Snowden da Ai Weiwei alle Pussy Riot, l’immagine di chi si oppone al potere è sempre più popolare. E così entra di diritto nell’universo dei Vip mediatici
Da Assange a Snowden da Ai Weiwei alle Pussy Riot, l’immagine di chi si oppone al potere è sempre più popolare. E così entra di diritto nell’universo dei Vip mediatici

La ribellione è un atto collettivo che richiede l’esempio di un individuo. Il singolo diventa la sineddoche, la parte per il tutto. In tempi più contemporanei e commerciali: il testimonial. Per pubblicizzarla occorre condensare la storia in un personaggio o un’immagine. Non c’è Tienammen senza il ragazzo fermo davanti ai carri armati. Più che di un leader c’è bisogno di una scintilla, propagabile attraverso la comunicazione. È sempre stato così: da Che Guevara a Nelson Mandela passando per Jan Palach o Aung San Suu Kyi. È ancora così, ma in parte: qualcosa è cambiato. Bisogna partire dall’identificazione e analisi dei “nuovi ribelli” per cogliere l’evoluzione della specie.
“Nuovi ribelli” è il titolo di un libro inchiesta (non ancora tradotto in Italia) dello studioso argentino Luis Diego Fernández. Passando dagli indignados spagnoli alle Pussy Riot russe, dagli attivisti di Wikileaks all’artista cinese Ai Weiwei, Fernández indica una serie di caratteristiche comuni ai ribelli, vecchi e nuovi. Queste: rifiuto del sistema, estraneità alle sue strutture, marginalità, intransigenza, opposizione a ogni forma di totalitarismo. Tutto condivisibile. L’emblema (per non usare il terribile vocabolo “icona”) della lotta è un capobranco e al tempo stesso un solitario. Quest’ultima condizione deriva spesso dal fatto che il sistema l’ha incarcerato o ne ha limitato i movimenti: non può uscire di casa (la lady birmana), non può andare all’estero (il regista iraniano). È quasi incredibile come, nonostante i numerosi precedenti, il potere non abbia ancora compreso che questa situazione non sminuisce ma accresce la forza del ribelle e del suo esempio. L’effetto opposto è prodotto dalla sua normalizzazione, dall’inserimento nel contesto. Se il ribelle commette l’imperdonabile errore di traiettoria di entrare nelle stanze del potere
si trova, più ancora che spaesato, normalizzato, perde fascino. Che Guevara, consapevole, fuggì da un ministero per esportare la rivoluzione nelle lande dell’improbabile. Beppe Grillo finge di non capeggiare un partito come un altro e induce i suoi eletti al parlamento a comportarsi come se ne fossero all’esterno e all’assalto.
Se la fisionomia del ribelle ha tratti costanti, dal 2008 a oggi si sono verificati sempre più percettibili mutamenti. Il 2008 è considerato la data crinale in cui l’economia globale entra in crisi. A ogni latitudine si verifica un impoverimento della collettività intesa come Stato e dei singoli o, per essere più corretti, del 99% di questi. Se la risposta anti-sistema nel ’68 e dintorni aveva tratti comuni trasnazionali, quella di quarant’anni dopo non ne ha più. È parcellizzata. È micropolitica che fa microresistenza e si aggrega in modo non permanente. Il “potere di ribellarsi” è distribuito come mai prima, ognuno ha una sua libertà di espressione e comunicazione un tempo ignota: è arrivata la rete. Ne dispongono non soltanto le organizzazioni ma anche gli individui che coagulano intorno a sé insiemi fluidi. Non c’è bisogno di intermediari. Chi ha un’idea alternativa non ha più bisogno di un editore che la stampi o una radio che la diffonda: fa da sé.
Chiedersi se i nuovi ribelli siano di destra o di sinistra è la solita bestialità. In America leggono da Noam Chomsky a Ayn Rand, mescolando critica al neoliberismo e fiducia nel titanismo dell’iniziativa che si fa motore della storia. Sono figure molto diverse tra loro, si oppongono alla concentrazione del potere, alla sua natura invasiva (aumentata da quando la libertà è stata barattata gioco forza con la sicurezza), ai dogmi che imbalsamano la società, al declino di molti in nome della sopravvivenza di pochi, a una esistenza sempre più alienata e dolorosa. Hanno dentro un germe spirituale che declinano in forme di “ateismo mistico”. Fernández individua alcuni personaggi che rientrano nell’identikit: Julian Assange e Edward Snowden in nome della trasparenza, le Pussy Riot e Ai Weiwei in nome dell’arte, Camila Vallejo e Malala Yousfzai in nome dei diritti. Ognuno può continuare come crede l’elenco. Fernández per esempio aggiunge (e qui diventa difficile seguirlo): Lady Gaga e Sasha Grey. Oppure vengono in mente le Femen, Yoani Sanchez, magari Sean Penn, o Sixto Rodriguez, in arte Sugar Man. Di nuovo, personaggi con profonde differenze e caratteristiche comuni.
In crescita quelli femminili. Armati di computer più che di fucile. Dire Ribelli 2.0 sarebbe un’ulteriore banalità. Non lo è considerare la smaterializzazione della figura. Il che conduce all’esempio più estremo: quello di Anonymous. Quando la rivolta prende il non volto, l’emblema non perde forza, ne guadagna. Diventa il singolo con il volto collettivo raggiungendo così l’ennesima potenza. È il ribelle uno e multiplo che può smarcarsi da ogni forma di incarceramento, che sia nelle galere o negli schemi del paginone doppio di un giornale (“Galassia in rivolta” e vai di infografica). Anonymous è il capolinea di un processo evolutivo e al tempo stesso il suo più dubbio esito. Una rivolta senza figure chiave è più esposta al fallimento. Le primavere arabe hanno rivelato anche questa lacuna: non hanno saputo concentrare la voglia e necessità
di una nuova fase storica in qualche credibile incarnazione. Ma Anonymous testimonia il desiderio di fare del ribelle una maschera di massa, almeno fino all’avvenuta rivoluzione. È un passaggio difficile ma affascinante. Che cosa esiste all’altro lato del bivio? La tentazione fin troppo condivisa di rifugiarsi in un nuovo emblema il cui volto è culmine del più antico dei paramenti: dogma e rivoluzione nel nome di Francesco, il papa ribelle.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password