Che cosa raccontano queste scarpe rotte

Appartengono a donne, uomini, vecchi e bambini che hanno dovuto camminare giorni e giorni per fuggire dal Sudan in guerra e trovare rifugio oltre frontiera. Eccole raccolte e fotografate In ogni paio c’è dentro la loro storia
Appartengono a donne, uomini, vecchi e bambini che hanno dovuto camminare giorni e giorni per fuggire dal Sudan in guerra e trovare rifugio oltre frontiera. Eccole raccolte e fotografate In ogni paio c’è dentro la loro storia

Scarpe rotte, eppur bisogna andar. Si può guardare un deposito di scarpe, e provare a indovinare da dove vengono, dove sono andate, quanto hanno camminato e indosso a chi. Le scarpe di Auschwitz, quelle dell’Armir, quelle scolpite sulla riva del Danubio… Col titolo Un lungo cammino,
la fotoreporter Shannon Jensen ha raccontato le storie di persone scampate alle carneficine dell’esercito sudanese fuggendo a piedi verso la frontiera del Sudan del Sud, diventato stato indipendente nel luglio del 2011 (nel dicembre scorso, un nuovo sanguinoso conflitto etnico è scoppiato dentro il nuovo Stato). Queste fotografie furono prese nella primavera del 2012, quando sotto gli attacchi militari trentamila persone cercarono scampo fuggendo a piedi verso il confine col Sudan del Sud, oltrepassato il quale i superstiti poterono ricongiungersi con altre decine di migliaia di rifugiati. La fotografa notò un giorno la delicatezza e la premura con la quale quei diseredati trattavano le loro calzature esauste, e decise di farne il proprio soggetto. Che gli umani siano le scarpe dentro cui camminano, detto qui da noi, suonerebbe come lo slogan pubblicitario di una marca di grido. Le scarpe dei rifugiati nel Sudan del Sud, e degli ininterrotti esodi che trascinano di qua e di là moltitudini di scacciati senza
tregua, raccontano davvero la loro storia. Guardare le persone dritto nelle scarpe: ecco un metodo parziale, ma rivelatore. Una volta, nel famoso 1968, a Venezia, Sebastian Matta, che era un famoso pittore e un uomo geniale, mi disse che aveva in mente di progettare scarpe per gli africani, ai quali si adattavano male, come molte altre cose di nostra invenzione, le nostre scarpe cittadine: per i luoghi in cui dovevano camminare e lavorare, e anche fuggire. Ci sono milioni di persone nel nostro mondo che hanno bisogno della scorta di un paio di scarpe fatte per fuggire, lontano da dove, chissà per dove.
Ci sono due sandali di gomma, di quelli che si chiamano infradito, credo, sono spaiati, uno ha la suola bianca (aveva la suola bianca) e le cinturine verdi, l’altro è rosa (era rosa) con un fiorellino sul cinturino. La didascalia dice che appartengono a Mam Odon Bar, un’anziana donna di Gabanit, da cui è fuggita sotto i bombardamenti aerei. Suo figlio è riuscito a trasportarla per buona parte del tragitto sul dorso di un asino. La sorella maggiore di Odon Bar è morta bruciata viva nella sua capanna, come altri cinquanta del suo villaggio. Da allora, prima di intraprendere il viaggio alla volta del confine, la sua famiglia ha vagato per mesi tra i villaggi di montagna.
Ecco altri due sandali di plastica, consunti fino alla trasparenza, neri, maschili, si direbbe. Ma appartengono ad Amna Jor, madre di sette figli, vicina ai quarant’anni, che è fuggita nel settembre 2011 e ha camminato per un mese. Era rimasta per sei mesi sulla montagna. Gli uomini dovevano comunque scendere a procurarsi qualcosa da mangiare e da bere. Una notte, nella folla, la suocera fu separata dalla famiglia, e non ne seppero più niente. Ai bordi della strada ha visto bambini morti di sete e vecchi abbandonati nel panico dei bombardamenti. Il cinturino del sandalo sinistro è tenuto insieme da una striscetta di cotone arrotolata.
Quelle piccole sono le scarpe di Musa Shep, un bambino di due anni, che ha viaggiato per più di venti giorni, sulle spalle di sua madre, Atoma Tifil, e prima i mesi da sfollati sui monti. Ora è al sicuro — spera — nel campo di rifugiati di Batil. Sono scarpe vezzose, da favola, così colorate e piene di nastri. Di buchi, anche.
Ci sono anche le scarpe di Gasim Issa, un uomo sulla sessantina. A Igor, il suo villaggio, era agricoltore e allevatore. Dal settembre 2011 lui e i suoi vicini cercarono rifugio sui monti. I soldati gli bruciarono la casa e il po’ di sorgo che non era stato ancora rapinato dal suo magazzino. Si incamminò verso sud con la famiglia, con la nipotina sulle spalle. Sua madre e gli altri anziani che non potevano affrontare il viaggio li incitarono ad andare avanti. Queste sembrano scarpe fabbricate da un naufrago in un’isola deserta — o da un profugo. Due pezze di pelle ritagliate alla buona, delle strisce per allacciarle.
Ecco i sandali rattoppati di Bashir Rumudan, quarant’anni, sheikh del suo villaggio. Dopo i bombardamenti dell’aviazione, i soldati sudanesi bruciarono le case e rubarono il bestiame. Loro scapparono, nelle prime ore del mattino e le ultime della sera, per scampare al solleone. Lui portava un nipote sulle spalle.
Già viola quelli di Sela Changil, una donna sulla quarantina che ci ha camminato dentro per mesi. Sotto c’è il suolo sul quale le reliquie dei sandali sono deposte, crepato dall’arsura. Trovare l’acqua, durante l’esodo, era la cosa più ardua e pericolosa.
Atoma Suliman, ventenne madre di due bambini, vide i suoi vicini morire sotto le bombe e il villaggio spianato dai carri armati. Dev’essere stata una gran fortuna trovare quel nastro adesivo giallo. Babu Elbai, sui quarant’anni, del villaggio di Iferi. Padre di otto figli. Ne portava in spalla due, camminavano fino a crollare stremati. Hanno vagato sui monti per mesi. Lungo la strada hanno cercato di soccorrere i vecchi restati indietro. Le sue scarpe hanno perso i loro lacci, sono sformate e bucate, e spalancano due voragini nere.

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