? Vittorio Ristagno

A teatro. Dal testo di Margaret Mazzantini, Paolo Dago e Vittorio Ristagno portano in scena un dramma sui senza tetto
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L’umanità dolente del clochard Zorro

? Vittorio Ristagno

A teatro. Dal testo di Margaret Mazzantini, Paolo Dago e Vittorio Ristagno portano in scena un dramma sui senza tetto

? Vittorio Ristagno

A teatro. Dal testo di Margaret Mazzantini, Paolo Dago e Vittorio Ristagno portano in scena un dramma sui senza tetto

Cin­que aggres­sioni in tre giorni, a Genova, a fine gen­naio. Rab­biose, bru­tali, a colpi di spranga, col­pendo scien­te­mente per far male, per man­dare in fran­tumi quello spec­chio di cosa potre­sti diven­tare tutti, se appena gira ancora un po’ il vento cat­tivo di que­sti tempi. Per terra ci riman­gono i bar­boni insan­gui­nati, inton­titi dall’alcol. Col­pe­voli di non saper difen­dere un simu­la­cro di nor­ma­lità fatta di car­tone, di stracci, di un por­tico dove pas­sare il gelo della notte che si con­ficca nelle ossa.

Cin­que aggres­sioni ai clo­chard, lo spec­chio e il rove­scio delle nostre città. Gente che pre­fe­ri­sce stare in città, per­ché in città «il cielo puzza di basso, di uomini», in cam­pa­gna invece la natura ti schiac­cia, è quasi arro­gante. Sono parole di Mar­ga­ret Maz­zan­tini, pro­ven­gono da Zorro, un ere­mita su un mar­cia­piede. Intanto è ben signi­fi­ca­tiva la coin­ci­denza che a Genova, la città delle aggres­sioni ai clo­chard, sia andato in scena pro­prio Zorro, messo in scena da Paolo Dago e Vit­to­rio Rista­gno per la sta­gione di Luna­ria al Tea­tro degli Emi­liani. Sul palco Zorro è Vit­to­rio Ristagno,che regge tutto lo spet­ta­colo solo sulla forza della sua voce e di qual­che oggetto di scena: una pan­china, due ban­cali, il car­toc­cio del vino.

Scor­rono in sot­to­fondo le musi­che dei metro­po­li­tani e squas­santi Mor­phine, Miles Davis, Duke Elling­ton. Ma il trionfo è della parola, del sapersi calare in quella realtà paral­lela in cui basta il sedi­mento di un errore su un altro per attra­ver­sare la zona gri­gia che ti porta dalla nor­ma­lità di una bella casa, di una moglie iste­rica e petu­lante, del pac­chetto della paste della dome­nica al pic­colo inferno della strada, da ren­dere almeno un pur­ga­to­rio dove ancora soprav­vi­vere. Zorro un giorno ha inve­stito con l’auto un gio­vane mec­ca­nico che cor­reva senza pre­stare atten­zione, il cane del ragazzo, gli è rima­sto attac­cato spau­rito. Una cosa da nulla, un inci­dente banale. Ma il ragazzo poi muore, l’uomo, Piz­zan­grillo, lascia pro­gres­si­va­mente il lavoro, stor­dito, la moglie prende a odiare quel cane e lui, rivol­gendo i pro­pri affetti altrove, e Piz­zan­grillo deve lasciare al pro­prio destino Zorro.

E, un giorno dopo l’altro, come diceva la can­zone di Tenco, lui fini­sce per strada, per­ché, alla fine «non si può andare con­tro il destino». Lui è diven­tato Zorro, a inveire con­tro i «cor­mo­rani», la gente nor­male con una casa che lo guarda con disprezzo, a cer­care rita­gli di affetto alle mense e al diurno, a con­ser­vare qual­che bran­dello di dignità, per­ché «la dignità non è una tes­sera, come un codice fiscale». Ha detto Mar­ga­ret Maz­zan­tini che scri­vere Zorro l’ha aiu­tata «a sta­nare un timore che da qual­che parte appar­tiene a tutti. Per­ché den­tro di ognuno di noi, incon­fes­sata, incap­puc­ciata, c’è que­sta estrema pos­si­bi­lità: per­dere improv­vi­sa­mente i fili, le zavorre che ci ten­gono anco­rati al mondo regolare».

Rista­gno resti­tui­sce al per­so­nag­gio un’umanità cor­posa, dolente, a tratti esplo­siva e rab­biosa: con una voce tenuta in bilico tra invet­tiva, tor­pore eti­lico, languore.

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