Sudafrica La giustizia riparatrice

I lavori della Commissione sudafricana per la Verità e la Riconciliazione sono stati accolti nei Paesi occidentali da un coro di opinioni favorevoli, e persino ammirate. Eppure, nessuno di quei governi si è mosso per modificare il proprio sistema giudiziario, temperando la giustizia punitiva, alla base dei loro sistemi giuridici, con una dose di quella «giustizia riparatrice» al cui principio si era ispirata la Commissione.

I lavori della Commissione sudafricana per la Verità e la Riconciliazione sono stati accolti nei Paesi occidentali da un coro di opinioni favorevoli, e persino ammirate. Eppure, nessuno di quei governi si è mosso per modificare il proprio sistema giudiziario, temperando la giustizia punitiva, alla base dei loro sistemi giuridici, con una dose di quella «giustizia riparatrice» al cui principio si era ispirata la Commissione.

La morte di Mandela ha poi suscitato una valanga di omaggi da parte dei capi di stato di tutto il mondo; ma c’è da dubitare che mettano in pratica i precetti che costituiscono il suo lascito.
A distinguere Mandela dagli altri oppositori dell’apartheid non è la sua intransigenza verso quel sistema politico, fondato sulla disuguaglianza degli abitanti del Paese, e neppure la durata o la determinazione del suo impegno. Ciò che ha reso unico il suo percorso e ne ha assicurato il successo, come retrospettivamente possiamo dire, è una rara combinazione di senso politico e virtù morale. Lo testimoniano diversi episodi della sua biografia.
Nel 1964 Nelson Mandela e i suoi compagni di lotta subiscono la condanna all’ergastolo, mentre nel Paese continua la repressione violenta di qualunque forma di protesta. A metà degli anni Settanta una nuova legge, che impone nelle scuole l’insegnamento in afrikans — la lingua dei padroni — provoca a Soweto una serie di manifestazioni, soffocate nel sangue. Dalla sua cella, Mandela invia un messaggio di solidarietà. Ma al tempo stesso, nelle poche ore libere dai lavori forzati impostigli dal regime penitenziario, si dedica a un’attività sorprendente: la lettura di libri sulla storia e la cultura della popolazione bianca che parla l’afrikans, e lo studio di questa lingua. Anche il suo comportamento nei confronti dei carcerieri è in netto contrasto con quello degli altri detenuti: anziché manifestare ostilità, cerca di comunicare con loro. Con questi gesti mostra di riconoscere non solo l’umanità delle vittime ma anche quella dei nemici. E scopre che i comportamenti arroganti dei carcerieri sono motivati non tanto da un senso di superiorità, quanto dalla paura di perdere i propri privilegi, ma soprattutto il terrore della vendetta di chi ha subito l’oppressione. Nelson Mandela dichiara allora: l’afrikanerè un africano, né più né meno dei suoi prigionieri neri.
Nel 1988, in seguito a un intervento medico (per tubercolosi) Mandela è separato dagli altri detenuti dell’Anc e nuovamente trasferito. I suoi compagni protestano, interpretando la misura come una vessazione; mentre al contrario Mandela non solo l’accetta, ma è soddisfatto della sua nuova condizione che gli consente di agire individualmente, senza subire le pressioni del gruppo. Perciò, pur senza prendere le distanze dal proprio partito, l’Anc, si affranca dalla sua sorveglianza.
All’inizio del 1989 il premier sudafricano Pieter Botha, rigido sostenitore dell’apartheid, è colpito da una congestione cerebrale e sente di non avere più molto tempo davanti a sé. Era già entrato in contatto epistolare con Mandela. Nel 1985 gli aveva offerto la libertà, a condizione che l’Anc rinunciasse alla violenza. Ma Mandela aveva rifiutato. Peraltro, benché non escludesse la violenza per principio, sull’esempio di Gandhi, era contrario a sacralizzarla, e pronto a non farne uso quando pensava di poter raggiungere lo stesso obiettivo con altri mezzi.
Nel luglio 1989 Botha lo invita a prendere un tè a casa sua. Nelson Mandela racconterà poi di essere stato colpito, più che dalle parole scambiate in quell’incontro, da due piccoli gesti: appena lo ha visto, Botha gli ha subito teso la mano, e gli ha poi servito personalmente il tè. Così Mandela ha scoperto di avere davanti a sé non l’incarnazione dell’apartheid, bensì un individuo. E si è convinto che il lavoro comune e il colloquio sono atti politici. Ha scelto allora di non tentare di imporsi con la forza, ma di ricercare una soluzione accettabile per entrambe le parti. In seguito riassumerà la sua posizione in due punti complementari: sì a uguali diritti a tutti (ossia l’abolizione dell’apartheid); no a una punizione collettiva della minoranza bianca.
Vale la pena di ricordare un ultimo episodio: nell’ottobre 1992 un gruppo di ex prigionieri dell’Anc, sospettati di aver collaborato col potere dei bianchi, denuncia le condizioni della loro detenzione. Davanti alle negazioni dei responsabili, Mandela taglia corto dicendo: «Per gran parte degli anni 1980, nei campi di prigionia dell’Anc le torture, i maltrattamenti e le umiliazioni erano moneta corrente». Aveva compreso che anche la più nobile delle cause non può legittimare azioni ignobili; e che la guerra ha una sua propria logica, in cui tutto si ripaga con la stessa moneta, e gli avversari tendono sempre più ad assomigliarsi. Questa sua consapevolezza lo porta, dopo il trionfo elettorale, a incoraggiare la via di una giustizia non punitiva ma riparatrice.
Nel bel discorso pronunciato alle esequie di Mandela, Barack Obama ha detto che ogni uomo di Stato dovrebbe chiedersi se nella propria vita abbia applicato bene la sua lezione. E ha constatato che mentre la lotta contro il razzismo può registrare qualche vittoria anche negli Stati Uniti, quella per la giustizia sociale, contro la povertà e la disuguaglianze, incontra tuttora robusti ostacoli. Ma Obama non ha detto nulla sui conflitti armati nei quali il suo Paese è tuttora impegnato, pure per nulla estranei a quello che è stato l’impegno di Mandela. Come si può affermare di ispirarsi al suo esempio — quello di riconoscere anche al nemico la comune umanità — quando di volta in volta tutti i governi americani hanno scelto di rinchiudere i loro nemici, veri o presunti, in campi di detenzione come quello di Guantanamo; di lanciare i loro droni indistintamente; di assoggettare a intercettazioni la popolazione del proprio Paese e i responsabili politici ed economici dei Paesi alleati? Tra le parole e gli atti c’è un abisso che la virtù morale di Mandela non può ammettere.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

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