RACCONTARE LA MEMORIA

I ricordi degli adulti nei campi di sterminio sono resoconti dettagliati e precisi in cui la fantasia non ha mai potuto e voluto trovare spazio. Ma chi nei lager è nato o cresciuto e non ha avuto altra vita è costretto a dare una forma artistica al dolore. E anche questo è testimonianza. Dai bambini sopravvissuti all’orrore è nata la letteratura della Shoah
I ricordi degli adulti nei campi di sterminio sono resoconti dettagliati e precisi in cui la fantasia non ha mai potuto e voluto trovare spazio. Ma chi nei lager è nato o cresciuto e non ha avuto altra vita è costretto a dare una forma artistica al dolore. E anche questo è testimonianza. Dai bambini sopravvissuti all’orrore è nata la letteratura della Shoah

I sopravvissuti erano e rimangono lo spauracchio di chiunque scriva sull’Olocausto, si tratti di uno storico o di uno scrittore. I sopravvissuti stavano sempre in guardia per controllare che gli eventi fossero riferiti nell’ordine giusto, che località e nomi non fossero omessi, che i particolari non fossero alterati. Per il sopravvissuto era importante che l’Olocausto fosse raccontato con dettagli precisi.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era l’ancora alla quale aggrapparsi con tutte le proprie forze. Scrivere sull’Olocausto opere di fantasia è stato considerato, e lo è tuttora, qualcosa di inadeguato alla gravità dell’argomento. Si sente spesso dire: con l’Olocausto non si gioca con le parole o le forme, ma si raccontano le cose così come andarono, nel modo più preciso possibile. In questo ambito, l’introduzione di un elemento qualsiasi di creatività, che esuli dal ricordo in senso stretto, è proibito. Non è un caso che la maggior parte di ciò che si è scritto sull’Olocausto rientri nell’ambito della storia. Psicologia e teologia vi occupano una parte soltanto minima. È vero, sull’argomento si è scritta moltissima letteratura sensazionalistica e opere letterarie che contengano la verità sono rare.
Finché i sopravvissuti hanno vissuto in mezzo a noi, l’Olocausto è stato una presenza molto concreta. Aveva un nome proprio, un cognome, una città, un villaggio. Con la sua presenza, con il suo silenzio, raccontava le
atrocità. Potevi incontrarlo per strada, a casa sua, alle cerimonie commemorative. Di fatto, ovunque. Sull’Olocausto è stato scritto un abbondante corpus di testimonianze. Se si osserva la natura di tale testimonianza, ci si rende subito conto che essa è priva di introspezione, la maggior parte delle testimonianze è resoconto. Tutto ciò che fu rivelato a chi era ebreo durante quegli anni andava oltre la sua ragione e il suo spirito. Si era trovato nel luogo esatto in cui si erano perpetrate quelle atrocità, e una volta libero aveva desiderato considerare il tutto un incubo, uno squarcio nella vita che doveva essere ricucito pril’Olocausto, possibile, un orrore che non meritava una valutazione spirituale, ma soltanto una maledizione. Per evitare malintesi, aggiungo subito che la letteratura della testimonianza è indubbiamente l’autentica letteratura dell’Olocausto. È una riserva immensa di cronologia ebraica.
Oggi si fa avanti un tipo diverso di sopravvissuto: tutti coloro che erano bambini quando scoppiò la guerra e la loro testimonianza è diversa. I bambini non assorbirono fino in fondo tutto l’orrore del prima soltanto quella porzione che erano in grado di assorbire. I bambini sono privi del senso del tempo che passa, del confronto con il passato. Mentre il sopravvissuto adulto parlava di com’era la sua vita prima della guerra, per i bambini l’Olocausto era il presente, era la loro infanzia, la loro giovinezza. Non conoscevano altra infanzia, né la felicità. Crebbero nel terrore. Non conobbero altra vita. Mentre gli adulti poterono estraniarsi da loro stessi e dai loro ricordi, reprimerli e costruirsi una nuova vita al posto di quella precedente, i bambini non avevano avuto una vita precedente oppure, se anche l’avevano avuta, ormai gliel’avevano cancellata. L’Olocausto era il latte nero, come disse Paul Celan, che succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera.
Questo aspetto psicologico ha avuto anche un significato ideologico. L’Olocausto per lo più è concepito, perfino tra le sue vittime, come un episodio, una follia, un’eclissi che non appartiene al flusso normale del tempo, un’eruzione vulcanica dalla quale bisogna stare in guardia, ma che non dice niente sul resto della vita. Nel caso dei bambini cresciuti nell’Olocausto, la vita durante quegli anni fu qualcosa che erano in grado di capire, perché l’avevano assorbita nel loro stesso sangue. Conobbero l’uomo bestia predatrice, non metaforicamente, ma come realtà materiale, con tanto di corporatura e abbigliamento, modo di stare in piedi o seduto, modo di carezzare i propri figli e percuotere un bambino ebreo. I bambini stavano seduti per ore, e osservavano. Fame, sete, debolezza ne fecero creature che osservavano. Invece degli assassini, osservavano i loro padri e i loro fratelli maggiori in tutta la loro debilitazione, in tutto il loro eroismo. Quelle visioni si impressero in loro proprio come l’infanzia si imprime nella matrice stessa della propria carne.
Per i bambini sopravvissuti, la guerra era la vita. Non sapevano parlare dell’Olocausto in termini storici, teologici o morali. Potevano parlare soltanto di paura, di fame, di colori, di celle, di persone che erano state buone con loro o di persone che li avevano maltrattati. L’intensità della loro testimonianza sta tutta nel loro orizzonte limitato. Non stupisce che la loro testimonianza sia stata respinta dai sopravvissuti adulti. Era considerata da questi ultimi una fantasia, una distorsione, qualcosa che riduceva la gravità dell’argomento. E oggi che si diffonde la negazione dell’Olocausto, si sente spesso dire: rimuovete la fantasia dalle testimonianze sull’Olocausto. Dovreste attenervi sempre più ai fatti.
Oggi abbiamo un corpus di testimonianze, scritte e orali, di sopravvissuti bambini e la loro testimonianza è più vicina alla letteratura. I loro ricordi sono piccoli, e quando riescono a ricordare che cosa accadde loro durante la guerra mettono in moto fantasia, sensazioni e sentimenti per ricostruire il loro passato. Questo tipo di testimonianza non dovrebbe essere considerato una testimonianza fattuale, ma una testimonianza riorganizzata.
Durante la guerra non vidi molti bambini. Istintivamente capii che dovevo stare per conto mio, ma dopo la guerra ne incontrai molti. Appartenevano alle masse di sopravvissuti che si aggiravano sulle spiagge della Jugoslavia e dell’Italia. Gli anni di guerra trascorsi nelle foreste e nei monasteri avevano lasciato il segno sulle loro facce e nelle loro espressioni. Alcuni di loro cantavano bene. Dico bene, anche se in genere le loro voci erano incrinate. Le loro canzoni erano reminiscenze delle melodie delle loro case ebraiche mescolate a frammenti di musica d’organo dei monasteri. Tutto ciò si fondeva in loro in una nuova forma di melodia che soltanto i bambini, nella loro cecità, potevano creare. La puoi definire innocente, o soltanto inelegante. C’erano bambini acrobati, che camminavano con meravigliosa maestria su una corda tesa. Nei boschi avevano imparato ad arrampicarsi sui rami più alti e più sottili. C’erano anche bambini che imitavano animali e uccelli.
Parlo del destino dei bambini perché è da loro che, col passare del tempo, sono emerse espressioni artistiche. È strano dirlo così, ma lo si deve dire. Era necessaria una forma di relazione semplice, diretta, non mediata con quegli spaventosi eventi per poter parlare di loro in termini artistici. Nessuna sublimazione, nessuna scusa, e nemmeno glorificazione, ma soltanto il modo che ha una persona qualunque di parlare degli eventi della propria vita, per quanto terribili possano essere, ma in ogni caso sempre vita.
Quello era il modo di parlare, se così si può dire, dei bambini. Quello era il modo col quale si espressero quando erano nel ghetto e in seguito nei campi liberati, e qualcosa di quella qualità non mediata è rimasta loro dentro, anche dopo che sono cresciuti e hanno cercato sé stessi, come esseri umani e come ebrei. Nel corso degli anni il problema, e non solo il problema artistico, è stato quello di rimuovere l’Olocausto dalle sue dimensioni smisuratamente disumane e di avvicinarlo agli esseri umani. Per sua stessa natura, quando si tratta di descrivere la realtà, l’arte esige sempre una certa intensità, una forma di esagerazione. Ma non è il caso dell’Olocausto. Ogni cosa che lo riguarda sembra già profondamente irreale, come se non appartenesse più all’esperienza della nostra generazione, ma alla leggenda. Da qui nasce l’esigenza di riportarlo giù, nel regno dell’umano. Quando dico “riportarlo giù”, non intendo semplificare, attenuare o lenire tutta la sua atrocità: intendo cercare di far sì che gli eventi parlino attraverso il singolo e nella sua lingua, intendo recuperare tutta la sofferenza da cifre enormi e dall’atroce anonimato, intendo restituire il nome e il cognome al singolo, ridare al torturato la forma umana che gli è stata rubata.
I sopravvissuti bambini non possono ricordare l’Olocausto nello stesso modo dei sopravvissuti adulti. Il loro contributo è legato alla loro esperienza, ma la loro limitata esperienza è profonda. Non stupisce che proprio da loro sia iniziata la letteratura dell’Olocausto.
© Traduzione di Anna Bissanti

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