I migranti di Ponte Galeria, nella capitale: da Natale non è cambiato nulla
I migranti di Ponte Galeria, nella capitale: da Natale non è cambiato nulla
ROMA — Youssef, Karim, Aziz. Lassaad, Rachid e gli altri della camerata numero 2. Nel cuore portano il ricordo dei compagni di sventura affogati nelle acque di Lampedusa e negli occhi le immagini delle violente proteste della primavera araba. Da venerdì sera parlano a gesti, usando le mani e mostrando i corpi piegati dai lavori massacranti a cui li hanno costretti gli scafisti libici che avevano promesso loro la libertà. Un termine che non è di casa nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, non luogo tutto sbarre e cemento armato piazzato nel nulla, alle spalle della nuova fiera di Roma e a pochi chilometri dall’aeroporto di Fiumicino. Stanchi di attendere novità sul loro futuro, venerdì 13 giovani marocchini sbarcati lo scorso 10 ottobre a Lampedusa e poi trasferiti nel Cie della capitale si sono cuciti la bocca. Poi, insieme ad altri 12 connazionali richiedenti asilo, hanno iniziato lo sciopero della fame e della sete.
Per sette di loro si tratta di una replica. Avevano già serrato le labbra con ago e filo lo scorso 21 dicembre, rifiutandosi di mangiare e bere per interi giorni. Da Natale a oggi, però, non è cambiato nulla. Anzi, a far esplodere la tensione accumulata nelle ultime settimane è arrivata una notizia dal Cie di Caltanissetta. Lassaad Jelassi, portavoce del gruppo dei migranti in protesta, la riassume in una frase: «Quindici marocchini che si trovavano sullo stesso barcone dei tredici di Roma sono stati liberati». La voce si è diffusa velocemente nell’ala maschile e la protesta è diventata l’unica naturale risposta a quella che i giovani nordafricani di Ponte Galeria ritengono «un’ingiustizia. Ci sentiamo persone di serie C — spiega ancora Lassaad — neanche di serie B. Perché loro sono usciti e noi no?».
Una risposta la chiede Youssef Ajmani. Dalla bocca cucita esce solo qualche mugugno: «Ho 27 anni e nel 2012 sono andato in Libia per fare il meccanico. Poi mio zio mi ha detto che c’era bisogno del mio aiuto da lui, in Francia. Potevo cambiare la mia vita… invece ho visto affogare donne e bambini. I miei amici erano sul barcone davanti al mio, quello che si è rovesciato ». Poi ci sono Aziz Jaheouiui, 30enne con un solo rene e bisogno di continue cure, e Karim Mojiane, pittore di 25 anni. La sua terra promessa era Bruxelles, dove ad attenderlo c’è il fratello della madre. «I miei genitori sono morti anni fa — racconta — e ho atteso per anni di raggiungere i parenti in Belgio. Nel frattempo mi sono diplomato in arte. Adesso? Gli altri sono liberi e io chiuso in questo posto».
Un centro da 360 posti letto dove si dorme in camerate da otto persone con le mura scrostate e il tempo si dilata a dismisura. «È peggio di un carcere», ripetono quei 20enni che una cella vera, fino allo sbarco in Italia, non l’avevano vista mai. «Siamo tutti puliti — spiega Lassaad — e qui stanno rubando mesi della nostra vita. L’unica nostra colpa è quella di essere nati nella parte sbagliata del Mediterraneo».
A cercare di rendere meno pesante la detenzione sono i dipendenti della cooperativa Auxilium, la società diretta da Vincenzo Lutrelli che gestisce il centro. Anche loro ora chiedono chiarezza sui loro tempi di permanenza. Proprio come il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: «È evidente che il tempo della politica scorre molto più lentamente rispetto a quello di queste persone, passate da un’immigrazione difficile a luoghi con pochissima dignità
come i Cie». «Quelle gabbie sono indegne — attacca il deputato Pd Khalid Chaouki — e già a dicembre avevamo denunciato le condizioni in cui vivono questi ragazzi, ma nessuno si è mosso. Ora spero che il sindaco di Roma pretenda un intervento rapido, così come il governo Letta che non può essere complice di questa disattenzione». Anche il senatore Pd Luigi Manconi chiede la chiusura dei Cie: «Identificano ed espellono una piccola parte di coloro che trattengono, sono costosi e inefficaci e mortificano la dignità delle persone. Se lo vuole, con una sola norma, il Parlamento può ridurre drasticamente quell’inutile tempo di permanenza».
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