? Un murales parigino dello street artist "Tore" © Reuters

Narrativa. Pubblicato «Doctor Sleep» dello scrittore americano dalla casa editrice Sperling & Kupfer. Il sequel di «Shining» è uno splendido esempio di come usare l'horror per raccontare una vita al «massimo»
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La luccicanza di Stephen King regola i conti con il passato

? Un murales parigino dello street artist “Tore” © Reuters

Narrativa. Pubblicato «Doctor Sleep» dello scrittore americano dalla casa editrice Sperling & Kupfer. Il sequel di «Shining» è uno splendido esempio di come usare l’horror per raccontare una vita al «massimo»

? Un murales parigino dello street artist “Tore” © Reuters

Narrativa. Pubblicato «Doctor Sleep» dello scrittore americano dalla casa editrice Sperling & Kupfer. Il sequel di «Shining» è uno splendido esempio di come usare l’horror per raccontare una vita al «massimo»

Ognuno ha i suoi crucci. Anche un ultra­ses­san­tenne ragazzo del Maine, scrit­tore di pro­fes­sione, con 400 milioni di copie ven­dute alle spalle, innu­me­re­voli film tratti dai suoi romanzi e rac­conti, due radio per dar sfogo alle pas­sioni per il base­ball e il rock’n’roll e che, se gli viene voglia di strim­pel­lare la rit­mica, si ritrova a farlo insieme a gente come Al Koo­per, Bruce Spring­steen o il grande War­ren Zevon. Uno dei crucci di Ste­phen King è che milioni di spet­ta­tori, che non lo hanno mai letto o solo distrat­ta­mente, con­ti­nuano a imma­gi­nar­selo attra­verso le lenti del più famoso film basato su un suo libro, lo Shi­ning di Stan­ley Kubrick.

Quel film, King lo odia. Ha rubato le fat­tezze del suo romanzo, la nuda trama, rove­scian­done come un guanto il signi­fi­cato. Un capo­la­voro di vir­tuo­si­smo regi­stico, depri­vato d’anima. Trat­tan­dosi di una delle sto­rie più tra­gi­che e sen­tite tra le tante rac­con­tate dal grande nar­ra­tore, si può capire che l’equivoco abbia con­ti­nuato a dar­gli sui nervi per decenni. Shi­ning era la tra­ge­dia di un uomo mal­trat­tato nell’infanzia e con­dan­nato come tanti, da adulto, a ripe­tere gli abusi subìti sul pur ado­rato figlio. Nel film, anche gra­zie alla reci­ta­zione mai così sopra le righe di Jack Nichol­son, era diven­tato una spe­cie di Eze­chiele Lupo in carne e ossa. Un masche­rone. Un mostro certo spa­ven­toso, ma senza spessore.

Soprav­vi­suto all’orrore

Alla fine, però, quando lo scrit­tore di Ban­gor si è deciso a scri­vere per la prima volta un sequel, la scelta è caduta pro­prio su Shi­ning. Doc­tor Sleep (Sperling&Kupfer, pp. 517, euro 19.90, tra­du­zione di Gio­vanni Arduino, che rie­sce, come già nel pre­ce­dente Joy­land, a non far rim­pian­gere troppo Tul­lio Dob­ner) segue le tracce del soprav­vis­suto bimbo Danny Tor­rence dagli anni imme­dia­ta­mente suc­ces­sivi al fat­tac­cio dell’Overlook Hotel a oggi, pas­sando per il pre­ci­pi­zio nell’alcolismo e nell’abiezione, poi per la resur­re­zione negli Alco­li­sti ano­nimi, fino al nuovo incon­tro non solo con le forze oscure ma anche con le sue radici, la sua fami­glia, l’ombra lunga del padre Jack.

Forse se King ha deciso di ripren­dere i fili pro­prio di Shi­ning non è solo per­ché, anche gra­zie al vitu­pe­rato film, è su quel romanzo più che su quasi tutti gli altri che i let­tori hanno con­ti­nuato a inter­ro­garlo, ma anche per­ché più degli altri gli offriva l’occasione di rac­con­tare un cam­bia­mento, son­dare i fili sot­tili ma di acciaio inos­si­da­bile che legano il pre­sente al pas­sato, met­tere in scena la sua stessa tra­sfor­ma­zione nel corso del tempo. Nella ocea­nica opera di Ste­phen King, l’autobiografismo occupa una posta­zione par­ti­co­lare. King rac­conta sto­rie: per gli autori che ado­pe­rano fiumi di inchio­stro per par­lare di se stessi e dei pro­pri tor­menti nutre pro­ba­bil­mente un sovrano e sospet­toso disprezzo. Tut­ta­via l’autobiografia ha fatto a volte capo­lino espli­ci­ta­mente, al punto da diven­tare lui stesso uno dei pro­ta­go­ni­sti degli ultimi romanzi della saga della Torre nera. Molto più spesso, però, il richiamo alla pro­pria diretta espe­rienza è stato impli­cito, occulto ed occul­tato, tra­sfor­mato in mate­riale nar­ra­tivo e reso così quasi irri­co­no­sci­bile. Una riserva crea­tiva segreta ma ine­sau­ri­bile. A volte sem­bra quasi che King ado­peri i rife­ri­menti alla sua stessa vita per esor­ciz­zarne e supe­rarne gli aspetti più oscuri e poten­zial­mente minacciosi.

Nella post­fa­zione a Doc­tor Sleep, King parla di se stesso ai tempi di Shi­ning come di «un alco­li­sta pieno di buone inten­zioni». In On Wri­ting, descrive que­gli anni come un abisso di alcol, dro­ghe e auto­di­stru­zione. Non è escluso che, in quello stesso periodo, lo scrittore-alcolista temesse di sci­vo­lare in una notte molto più fonda, e che a pagarne il prezzo potes­sero essere anche i figli, di età vicina a quella del pic­colo Danny. Anche Jack Tor­rence, in fondo, era uno scrit­tore, e un alco­li­sta pieno di buone ma pur­troppo disat­tese intenzioni.

Doc­tor Sleep è il rac­conto di una reden­zione, e fa poca dif­fe­renza che sia quella di Danny e non di suo padre Jack. Per que­sto, a dif­fe­renza di quello che avrebbe fatto un tempo, l’autore non usa il sovran­na­tu­rale come chiave per descri­vere un orrore reale e quo­ti­diano, quello dell’alcolismo, ma sbriga la fac­cenda in poche pagine per pas­sare a descri­vere l’uscita dal buio e, alla fine, la resa dei conti con i conti lasciati in sospeso nel pas­sato: le sue colpe, l’eredità della fami­glia, il peso di una dote, lo shi­ning, che somi­glia a una male­di­zione. Ci rie­sce gra­zie all’incontro con una ado­le­scente, Abra, che pos­siede la sua stessa dote, ma in for­mato gigante, e che deve sfug­gire alla cac­cia di una tribù vam­pira che pro­prio dello shi­ning si nutre per soprav­vi­vere nei secoli.

Mostruo­sità perfette

Col tempo, l’horror e il sovran­na­tu­rale sono diven­tati sem­pre meno impor­tanti nei libri di King, almeno in quelli dav­vero riu­sciti come i bel­lis­simi rac­conti di Tutto è fati­dico o il capo­la­voro Joy­land, poco più di un mar­chio di fab­brica, la firma incon­fon­di­bile su un qua­dro. Ma Doc­tor Sleep è anche un tuffo nel pas­sato rivi­si­tato con lo sguardo del pre­sente, e la trama somi­glia dun­que a quelle dello Ste­phen King degli anni Set­tanta e Ottanta, piena di ele­menti sovran­na­tu­rali ado­pe­rati per rac­con­tare per­corsi e traumi che di sovran­na­tu­rale non hanno nulla. In que­sti casi la fan­ta­sia di King non è mai tanto pos­sente come quando si tratta di creare mostri. La tribù vaga­bonda del Vero Nodo, i suc­chia­tori di shi­ning, è una delle crea­zioni meglio riu­scite nella sua intera car­riera: il per­fetto punto di incon­tro e intrec­cio tra il gotico clas­sico e la sua ver­sione moderna e ame­ri­cana, quella creata da King e dal suo amico George Romero più che da qual­siasi altro autore.

Que­sti vam­piri che vivono sui cam­per, fero­cis­simi e sen­ti­men­tali, legati tra loro da vin­coli di affetto sin­cero, a modo loro nep­pure cat­tivi, non più di quanto lo sia chi abbatte un manzo per farne bistec­che, devono certo mol­tis­simo alla Kate Bige­low del magni­fico Il buio si avvi­cina. Ma accu­sare King di pla­gio sarebbe come cri­ti­care Woody Guth­rie per aver ripreso e ria­dat­tato decine di can­zoni popo­lari, o pren­der­sela con Bob Dylan per aver model­lato la sua Tem­pest sulle note di una can­zone popo­lare che già da decenni rac­con­tava l’affondamento del «Tita­nic». La cul­tura pop è piena di echi, rimandi, tra­sfe­ri­menti, rie­la­bo­ra­zioni e ria­dat­tamti. È una nar­ra­zione corale. E anche se ormai anche quelli che ai tempi di Shi­ning stor­ce­vano la bocca si sono resi conto che si tratta di un grande scrit­tore, Ste­phen King non ha mai smesso di essere un autore pop, e di riven­di­carlo con orgo­glio. Come Dylan e Spring­steen. O come War­ren Zevon, allla cui memo­ria que­sto libro è dedicato.

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