Se a raccontare Little Bighorn sono gli indiani
Il giornalista ci ricamò una storia. Mischiò notizie vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che l’album era stato rinvenuto in una sepoltura indiana a Little Bighorn, il sito della battaglia in cui i Sioux avevano annientato Custer e il suo Settimo Cavalleggeri.
Se a raccontare Little Bighorn sono gli indiani
Il giornalista ci ricamò una storia. Mischiò notizie vere ad altre di sua invenzione. Scrisse che l’album era stato rinvenuto in una sepoltura indiana a Little Bighorn, il sito della battaglia in cui i Sioux avevano annientato Custer e il suo Settimo Cavalleggeri.
Ed era vero. Che i disegni erano stati eseguiti sulle pagine di un libro mastro sottratto a un viaggiatore bianco ucciso su uno dei più famosi sentieri per il West, il Bozeman trail. Ed era vero. Che la serie di settantasette disegni rappresentava le gesta, era l’autobiografia, di un capo di nome Mezza Luna. Era solo verosimile.
vengono chiamati gli album disegnati dagli “indiani” di metà Ottocento sulle pagine già usate di quaderni e registri contabili (
appunto), o addirittura sui fogli dei ruolini dell’esercito Usa, spesso sovrapponendoli a quanto vi potesse già essere scritto. Il “supporto” artistico era preda di guerra, e ciò ne aumentava enormemente il valore agli occhi dei possessori. Esattamente come per gli indiani delle praterie i cavalli sottratti ai bianchi, o meglio ancora acquisiti in combattimento, valevano molto più di quelli domati da un branco selvaggio. Era una questione di status, anzi di logo, di marca, verrebbe da dire. Al punto che, in mancanza di prede con marchi autentici, i giovani guerrieri solevano dipingere il marchio “US Army” sui propri cavalli.
È il western per una volta raccontato dagli invasi (i nativi) e non dagli invasori (i coloni europei difesi dall’esercito), la guerra raccontata dagli sconfitti e non dai vincitori. Dipingere o farsi dipingere le proprie imprese di guerra e i propri fatti di coraggio, su quaderni e registri sottratti ai bianchi, non era solo un must, lo status symbol per eccellenza. Era anche possesso di un oggetto magico, Anche se a un certo punto divenne scomodo, perché gli album cominciarono a essere usati nei processi come prova di partecipazione a banda armata. Tra i molti album del genere che si sono conservati, questo le cui immagini qui pubblichiamo è ancora più speciale.
Perché non è opera di un unico autore. È uno scambio di cortesie cerimoniali a più mani. Gli artisti, Sioux e Cheyenne, che raccontano le proprie imprese o quelle dei propri amici, in questa raccolta sono almeno sei. E uno di loro potrebbe essere niente meno che il leggendario capo guerriero Nuvola Rossa. Così almeno sostiene l’antropologo Castle McLaughlin nel suo dotto commento alla riproduzione a stampa dell’album, col titolo
A Lakota War Book from The Little Bighorn pubblicato seum Press e dalla Houghton Library dell’Università di Harvard che ne detiene l’originale. Il sottotitolo: The Pictographic “Autobiography of Half Moon”, si riferisce al titolo che alla raccolta era stato dato da un reporter del al seguito delle truppe dell’esercito impegnate contro le tribù di indiani, che l’aveva fatta rilegare elegantemente, aggiungendovi una sua introduzione in bella calligrafia. Phocion Howard — questo lo pseudonimo con cui il giornalista firmava dal fronte — sosteneva di aver avuto i disegni da un sergente del Secondo Cavalleria, uno dei reparti arrivati sul campo della battaglia di Little Bighorn in soccorso di Custer quando ormai il generale e il suo reparto erano stati annientati, il 28 giugno 1876. Il quaderno da contabile a righine con le pagine dipinte faceva parte del corredo funerario di un capo indiano, rimasto ucciso probabilmente in un altro scontro, di appena qualche giorno prima.
Era frequente che i soldati blu recuperassero come souvenir dai cadaveri e dai monumenti funerari degli indiani uccisi album di disegni tipo questo. Talvolta venivano venduti ai turisti, altre volte considerati carta straccia con scarabocchi. Questo si salvò, anzi fu curato con un eccesso di attenzioni. Howard lo fece smembrare e ricomporre in modo che sembrasse un’unica narrazione autobiografica. E si inventò un personaggio inesistente. Per sbaglio, perché aveva equivocato come nome proprio un simbolo di mezza luna su uno dei dipinti. Oppure perché riteneva che potesse interessare maggiormente se rispondeva ai gusti di una narrazione all’europea. Oppure forse perché sperava che potesse riscuotere un successo di pubblico simile a quello di un’altra “biografia per immagini” che fece furore sulla stampa americana proprio nei giorni successivi allo shock per la fine di Custer e dei suoi soldati: quella di Toro Seduto. Era stato il a pubblicare il 9 luglio 1876, giusto pochi giorni dopo Little Bighorn, alcuni dei disegni di «fatti di sangue, crudeltà, ruberie, disumanità, barbarie» tratti dall’autobiografia disegnata di suo pugno del gran capo Sioux. Era un modo per incitare all’odio nei confronti dei “pellerossa” e a farla finita una volta per tutte con quei “selvaggi”, responsabili di tali atrocità. E in effetti poi arreso, anzi integrato fino al punto di esibirsi nel circo di Buffalo Bill, non aveva evitato al vecchio e moderato Toro Seduto di fare la fine di Osama bin Laden. Esattamente come finì ammazzato, quando si era già consegnato, l’irriducibile “testa calda” Cavallo Pazzo. Non a caso era stato lo stesso giornale a condurre una campagna contro la “politica di pace” di Washington nei confronti dei “ribelli”, denunciando — con l’aiuto di Custer, che quasi ci rimise la carriera per l’indiscrezione — lo scandalo di un traffico di licenze sulle riserve indiane in cui era implicato lo stesso fratello del presidente Grant.
L’album, il di Howard, aveva invece il difetto di evocare al pubblico più l’eroismo romantico dell’Ultimo di Fenimore Cooper che l’orrore per la barbarie del selvaggio. Illustra le imprese compiute negli anni delle “guerre di Nuvola Rossa”, nel corso del decennio precedente i fatti di Little Bighorn. Fatti militari, certo, ma anche imprese di caccia, dove l’elemento principale non è affatto la crudeltà o la truculenza ma il coraggio. Scorre sangue, vengono uccisi soldati e ufficiali in divisa, anche civili e donne, e soprattutto altri indiani: le odiate guide Shoshone che accompagnavano la cavalleria Usa, o membri di tribù avversarie dei Sioux. Ma l’accento è immancabilmente sul coraggio, sul cavalcare in mezzo a nugoli di frecce e proiettili, sul rubare sotto il fuoco i cavalli e i muli dell’esercito, sull’aiutare i compagni che hanno perso la cavalcatura, sulla pratica
del “contare i colpi” sul nemico, semplicemente toccandolo, mentre è ancora vivo o impugna un’arma, con la punta della lancia o dell’arco. Per questi cavalieri della prateria la guerra è un gioco, un rito, una questione di faccia e di onore, un po’ come i romanzi europei ci avevano fatto immaginare dovesse esserlo per i cavalieri erranti del medioevo. C’è anche una storia d’amore, di rapimento della donzella da parte dell’innamorato, ma solo in un disegno su settantasette.
Ma non è neppure solo un romanzo, una graphic novel. Il curatore insiste con dovizia di argomenti, attenzione meticolosa ai particolari (dalle armi al vestiario, alle finiture dei cavalli e ai colori di guerra) a trattarlo come un eccezionale documento storico, legato a fatti e protagonisti storici. Eppure nel suo secolo ebbe notorietà brevissima. Passò di mano in mano prima di arrivare nel 1930 alla biblioteca dell’Università di Harvard. E lì fu dimenticato per quasi un secolo. Malgrado l’America avesse nel frattempo riscoperto una nostalgia struggente per la civiltà sottoposta a sterminio etnico dei suoi cavalieri della prateria.” Phocion Howard Il giornalista embedded ritrovò i disegni e vi aggiunse una sua introduzione lavorando di fantasia
© MS AM 2337, HOUGHTON LIBRARY, HARVARD UNIVERSITY
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