Dalla guerra contro i minatori agli appuntamenti col parrucchiere l’agenda segreta di Lady Thatcher

 Resi pubblici 500 documenti riservati dell’ex premier

LONDRA — Centodiciotto appuntamenti dal parrucchiere, gli irriducibili minatori in sciopero da combattere con ogni mezzo, magari anche con l’esercito, o chiedendo a Gorbaciov, arrivato senza preavviso a bussare al numero 10 di Downing Street. E non una parola ufficiale, durante la visita del premier sudafricano Botha, per la liberazione di Nelson Mandela.

 Resi pubblici 500 documenti riservati dell’ex premier

LONDRA — Centodiciotto appuntamenti dal parrucchiere, gli irriducibili minatori in sciopero da combattere con ogni mezzo, magari anche con l’esercito, o chiedendo a Gorbaciov, arrivato senza preavviso a bussare al numero 10 di Downing Street. E non una parola ufficiale, durante la visita del premier sudafricano Botha, per la liberazione di Nelson Mandela.

Eccolo, il 1984 di Margaret Thatcher: di ferro, ma anche d’impotenza per la crisi energetica dovuta ai minatori, e di molti bigodini, almeno ogni tre o quattro giorni, per mantenere intatta la sua perfetta immagine “coiffée”.
Per lo scadere dei trent’anni di segretezza, vengono fuori dagli archivi i 500 documenti riservati sul quinto anno di governo della premier conservatrice morta lo scorso aprile. Il grande guaio fu la battaglia intrapresa dai minatori davanti all’annuncio, in marzo, che 20 delle 174 miniere statali sarebbero state chiuse. La National Union of Mineworkers proclamò lo sciopero a oltranza — che poi finirà solo nel 1985. Per tutta risposta, Thatcher paragonò i minatori agli argentini, parlando di «nemico da combattere» come due anni prima era accaduto per la sovranità sulle isole Falkland. Ora i documenti rivelano che le sue non erano solo parole: c’era un piano segreto che prevedeva lo stato d’emergenza e l’invio nelle miniere di soldati incaricati di portare il carbone alle centrali elettriche, per evitare la crisi energetica. Nel frattempo, i servizi dell’MI5 avvisavano il governo dell’esistenza di «corrieri» del sindacato che tornavano dalla Svizzera con valige piene di soldi trasferiti lì dalle organizzazioni dei minatori russi per sostenere lo sciopero, precisando come fosse più che probabile il coinvolgimento dei vertici dell’Urss.
In dicembre, quando ormai il testa a testa durava da dieci mesi, in Gran Bretagna arrivò Mikhail Gorbaciov, che ebbe con la Thatcher quel colloquio nella residenza di campagna dei Chequers diventato famoso per come lei lo giudicò: «Con lui si possono fare affari», disse pubblicamente,
cinque anni prima della caduta del muro di Berlino. Non disse però di aver chiesto a Gorbaciov se poteva esserle d’aiuto con gli scioperanti. Né si sapeva che il futuro segretario del Pcus (sarebbe stato eletto nel marzo 1985) le rispose ironizzando: «Lei crede davvero che l’Unione Sovietica sia così potente?».
Pochi giorni dopo, mentre la Thatcher era in Asia, Gorbaciov apparve a Downing Street. Come riferisce un telegramma inviato alla premier assente, era di passaggio in auto, di ritorno da altri incontri ufficiali, quando disse che era curioso di vedere la residenza del primo ministro. La scorta inglese che gli era stata assegnata pattuì l’ingresso con gli agenti di guardia in strada, spiegando che Gorbaciov aveva «ventilato » l’ipotesi di visitare la casa accompagnato dal marito di Margaret, Denis Thatcher. La porta del numero 10 si aprì, Gorbaciov e i suoi accompagnatori
entrarono nel vestibolo, ma si mossero prima che potesse arrivare uno dei segretari privati a riceverli, andando via «di ottimo umore», come riferisce il telegramma.
In quell’anno la Thatcher ricevette ai Chequers anche il presidente sudafricano Pieter Willem Botha. Una riunione di quattro ore in gruppo ristretto, nella quale Mandela, in carcere da 22 anni e ormai da tempo simbolo mondiale della lotta all’apartheid, non fu neppure nominato. È lei stessa a riferire al suo segretario la conversazione senza testimoni avuta con Botha prima della riunione, spiegando che mentre lui le aveva chiesto aiuto per alcuni sudafricani sotto accusa in Gran Bretagna, lei aveva chiesto un intervento a favore del detenuto Mandela. Ma entrambi i premier si erano reciprocamente risposti con la stessa formula: «Non posso interferire».

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