Anteprima. Un disco prodotto in Francia, dove artisti internazionali rileggono (e stravolgono) il repertorio del menestrello del rock
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Caro Bob Dylan in tutte le lingue del mondo

Anteprima. Un disco prodotto in Francia, dove artisti internazionali rileggono (e stravolgono) il repertorio del menestrello del rock

Anteprima. Un disco prodotto in Francia, dove artisti internazionali rileggono (e stravolgono) il repertorio del menestrello del rock

Un tri­buto di que­sto genere, forse nep­pure il vec­chio e scal­trito Bob se lo aspet­tava. Un tri­buto a tre­dici suoi pezzi, alcuni auten­tici pila­stri della musica, che arriva da un altro mondo, anzi da altri mondi, ben lon­tani dall’America. A rie­la­bo­rare i brani, sovente spin­gen­doli, con grandi risul­tati, al limite della pos­si­bi­lità di rico­no­scerli, sono stati infatti arti­sti bir­mani, unghe­resi, ira­niani, egi­ziani, mace­doni, indiani…

È nato così From ano­ther world, A tri­bute to Bob Dylan, una pro­du­zione della fran­cese Buda Musi­que, distri­buito in Ita­lia da Egea. La rie­la­bo­ra­zione, il posi­tivo stra­vol­gi­mento, arriva prima di tutto dai testi, che ven­gono can­tati nelle rispet­tive lin­gue ori­gi­nali. Una sola è più o meno com­pren­si­bile, lo spa­gnolo del cubano Elia­des Ochoa (anche il più vicino geo­gra­fi­ca­mente alla patria di Bob) per All Along the wat­ch­to­wer. Ma poi diventa insor­mon­ta­bile com­pren­dere i versi di Salah Aghili, Iran, in Every grain of sand; quelli della Burma Orche­stra Saing Waing, Myan­mar, che ripro­pone I want you, scelta anche dal Trio Mei Li De Dao di Tai­wan; o far pro­pria la tra­spo­si­zione in indiano di Mr Tam­bou­rine man fir­mata da Purna e Bapi Das Baul. Never mind, non importa, non importa capire. Per­ché sono le emo­zioni che con­tano, e che mol­ti­pli­cano il loro peso trac­cia dopo trac­cia. Certo, a pro­po­sito di Mr Tam­bou­rine man, ne ritrovi eco musi­cale tenue solo qua e là, ma l’ektara, stru­mento mono­corde dal potere ipno­tico, si rivela inter­prete ano­malo e per­fetto. Elia­des Ochoa porta nel brano da lui scelto la sola­rità rit­mica dell’Isola che Suona, men­tre Blowin’in the wind acqui­sta tratti tzi­gani gra­zie all’ensemble unghe­rese Kek Lang. La brass band mace­done Kocan Orke­star esce vin­ci­trice dal con­fronto con Rainy day woman, e lo stesso avviene per i rumeni Taraf of Haï­douks in Corinna Corinna. Se que­sti due gruppi si muo­vono seguendo l’istinto e la scelta di una cora­lità dirom­pente, fa loro da con­trap­punto la voce soli­ta­ria, il pen­ta­gramma quasi ete­reo, di altri musi­ci­sti. L’ascolto «bir­mano» di I want you suscita mera­vi­glia: la si rico­no­sce, e però è come ascol­tarla per la prima volta. I tam­buri, i flauti, i cim­bali, le tenui per­cus­sioni di bam­boo, i gong, la lique­fanno con dol­cezza, la por­tano sotto il tetto rosso e nel silen­zio di un tempio.

Naviga lenta e pla­cida sul grande fiume dell’Egitto Tan­gled up in blue gra­zie ai Musi­cians of the Nile, men­tre Joker­man indossa la maschera sonora del Raja­sthan nella chiave di let­tura che ne dà Dhar­men­dar Divana. Indi­care pre­fe­renze risulta dif­fi­cile. Tut­ta­via, all’interno di un omag­gio a Dylan così unico e fuori da ogni recinto, restano impresse, spin­gono a ria­scol­tarle, Man gaves names to all the ani­mals, Sayfi Moha­med Tahar, Alge­ria, che si annun­cia con un minuto di fiati cui si incolla la pelle dei tam­buri prima di con­ce­dere spa­zio alla voce.

Dune del deserto dove la musica di Occi­dente e Magh­reb diven­gono una sola e magni­fica cosa. Poi, ed è que­sto forse il momento più alto, Father of night, prova incon­fu­ta­bile che l’aggettivo uni­ver­sale, sovente usato a spro­po­sito per la musica, qui trova ragione di venir citato.

A con­se­gnar­cela è l’Aboriginal peo­ple of Yolingu of Yala­kun, Arn­hem Land, Austra­lia. Lo yidaki, il did­ge­ri­doo, flut­tua nel vento che Bob aveva can­tato per la prima volta mezzo secolo fa.

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